In effetti il titolo qui sopra
potrebbe sembrare contraddittorio, persino insultante. Ma come: l’esito della
consultazione popolare greca del 5 luglio e le ipotesi, a quanto pare sempre
più concrete, di “Grexit” potrebbero avere effetti dirompenti sull’economia
(non solo di Atene) e minare a fondo l’unità stessa dell’Europa così come la
conosciamo, e qualcuno la vede come un’opportunità? Questa è follia pura! No, si tratta semplicemente di
una provocazione. Di un pungolo, uno stimolo a pensare in maniera differente, magari
inconsueta: a immaginare un’Europa finalmente diversa, conscia delle proprie
potenzialità e in grado di assumere sullo scacchiere internazionale un ruolo di
primo piano. Nella realtà, non a parole.
Ogni grande difficoltà porta con
sé un’opportunità. La questione greca dà all’Europa la possibilità di
ripensarsi (a beneficio dei suoi stessi cittadini, delle sue imprese, della sua
economia) e di cominciare a riposizionarsi (sullo scacchiere internazionale).
Per quanto riguarda il ripensarsi, è
chiaro che la stessa notizia che sta circolando in queste ore, e cioè il fatto
che l’UE starebbe studiando un piano di aiuti umanitari per la popolazione
greca, dovrebbe suonare come qualcosa di molto più che un campanello d’allarme.
È il segnale della sconfitta: il più bel progetto degli ultimi decenni, il
sogno di un continente finalmente pacifico, prospero e in grado di garantire benessere
a tutti i propri cittadini (sogno che pareva a portata di mano appena dopo la
caduta del Muro), in frantumi. La sola ipotesi di dover fornire “aiuti
umanitari” a cittadini dell’UE (la stessa formula usata per portare soccorsi
alle popolazioni colpite da terremoti, carestie, guerre) dovrebbe fare
accapponare la pelle a politici, tecnocrati, banchieri, teorici del default,
burocrati. E soprattutto a noi, semplici spettatori. Oggi tocca ad Atene. Per
chi suonerà la campana domani? È davvero questa l’Unione che ci serve? O non è
forse giunto il momento di comprendere che se l’UE continuerà a essere
percepita come un ambiente nel quale i paesi forti tiranneggiano quelli deboli,
la grande finanza e le banche perseguono cinicamente i propri interessi speculativi
a scapito della qualità della vita delle persone, si rischia di avvitarsi in
questa crisi e di non saper più tornare indietro?
Quanto al riposizionarsi, è del tutto evidente che, in questo preciso momento
storico, l’Europa così com’è non ha reale voce in capitolo praticamente in
nessuna delle questioni davvero rilevanti sullo scacchiere internazionale. Dai
negoziati sul nucleare iraniano alla lotta contro lo Stato Islamico, sino ai
tentativi di risoluzione della crisi ucraina, l’UE in quanto tale gioca un
ruolo assolutamente secondario. È presente, ma non viene considerata un attore
in grado di avere una reale influenza sui processi decisionali volti a
governare queste criticità: al massimo, come compagna di viaggio degli USA che appiattisce
le proprie posizioni a quelle del grande alleato d’oltreoceano. A volte anche
pedissequamente e contro i propri stessi interessi, come nel caso delle
sanzioni alla Russia: per informazioni, rivolgersi agli imprenditori tedeschi,
italiani, francesi e non solo, che stanno perdendo miliardi di Euro in
interscambi commerciali. Spesso, i singoli Stati membri si muovono in maniera
convulsa e a dir poco disorganica, a volte in palese contraddizione l’uno con
l’altro. Cosa tanto più grave, se consideriamo che in questo momento storico
nessuno dei paesi europei, singolarmente, può giocare un ruolo di rilievo sullo
scenario internazionale: nemmeno la potente Germania, da sola, può competere in
termini di importanza geopolitica con i grandi giocatori quali USA, Cina,
Russia.
S’è fatto un gran parlare, nei
giorni scorsi, del possibile accordo tra Grecia e Russia grazie al quale questa
potrebbe fornire ad Atene 5 miliardi di Euro in pagamenti anticipati per i
futuri diritti di passaggio del gas russo, proveniente dalla Turchia, sul
territorio greco in attuazione del progetto Turk-Stream. Tale scenario ha
immediatamente allarmato gli USA, preoccupati non tanto di evitare che la
Grecia passi sotto l’ombrello protettivo di Mosca, quanto di preservare il
processo di unificazione europea affinché l’Euro resista e continui a fare da
cuscinetto di protezione del ruolo del dollaro. In realtà, la conduttura è
ancora più nelle intenzioni che qualcosa di concreto: T. Maltby scrive su
theconversation.com “Major questions
remain regarding the feasibility of the project. All that has been
agreed so far is a non-binding agreement to pursue the idea further. The
timetable of construction is highly ambitious”. Ma dal punto di vista tattico,
per l’UE, perché non approfittare di questo avvicinamento tra Tsipras e Putin
per provare a costruire un nuovo ponte nelle relazioni euro-russe, oltretutto
su un argomento di vitale importanza per l’intera Europa, ovvero
l’approvvigionamento di fonti energetiche? Il gasdotto potrebbe facilmente
giungere in Puglia, e di qui proseguire verso il Nord Europa grazie alla rete
infrastrutturale che già esiste: con rendite di posizione interessanti, tra
l’altro, anche per la stessa Italia. Il tutto, senza dover abbandonare il
progetto TANAP, che nelle intenzioni dell’UE dovrà approvvigionare il vecchio
continente con gas proveniente dall’Azerbaijan via Turchia.
E dunque, perché non cogliere
l’occasione offerta, suo malgrado, dalla crisi greca per sparigliare un po’ le
carte e modificare il proprio posizionamento? Perché non riappropriarsi di una
propria dignità, di un’identità autonoma, indipendente, in grado di veicolare
le enormi potenzialità del continente? È chiaro che non si può pensare di
stravolgere in un batter d’occhio decenni di alleanza atlantica e di rapporti
privilegiati (economici, militari, culturali, politici) con gli USA. E, in
fondo, sarebbero in pochi a volerlo davvero. Ma se gli americani annunciano
urbi et orbi di avere modificato le loro linee di condotta strategica, avendo
ora non più come focus principale l’Atlantico ma il Pacifico; se raffreddano il
loro coinvolgimento persino nello scenario dove opera il loro alleato
storicamente più vicino (Israele), perché l’Europa non potrebbe fare
altrettanto? Perché non dovrebbe ampliare, senza per questo stravolgere, i
propri riferimenti geopolitici al fine di perseguire i propri interessi vitali?
Certo, né ripensare l’Europa, né
riposizionarla sono compiti facili; ma la differenza tra statisti e tecnici
sta, deve stare, proprio qui: tra chi è in grado di essere lungimirante, di
immaginare, concepire, gettare le basi per un nuovo, grande progetto europeo
(o, se si preferisce, per rilanciare quello originale che pare aver deviato
bruscamente dalla sua strada), e chi si limita all’applicazione di regole e
parametri, non si sa quanto ragionevoli, facendosi apostolo di una sorta di
dittatura dei crudi numeri della contabilità. Statisti e Politici (volutamente
con la P maiuscola) d’Europa, se ci siete, è il momento di battere un colpo.
Riferimenti: