"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

sabato 31 agosto 2013

OMAGGIO A SEAMUS HEANEY

Autore: Rodolfo Marangotto


Ieri si è spento il grande poeta nordirlandese Séamus Heaney, premio Nobel per la letteratura nel 1995.
Cittadino onorario di Mantova; ha inaugurato l'edizione 2012 del Festivalletteratura ed è stato il primo a firmare l'appello al Presidente Napolitano per il restauro e la riapertura della Camera degli Sposi dopo il sisma dell'anno scorso. L'Accademia Virgiliana gli ha dedicato il Premio Internazionale Virgilio. A maggio di quest'anno ha tenuto una lectio magistralis agli studenti liceali di Mantova.

Il Festivalletteratura lo ricorda così: clicca.
Il video dell'evento a lui dedicato nel 2012:


Noi lo vogliamo ricordare con le sue poesie:

Crossing
Tutto scorre. Anche in un uomo solido,
pilastro di sé e del proprio mestiere,
con tanto di scarponi gialli, bastone, feltro floscio in testa,

possono spuntare le ali ai piedi e farlo lesto,
come un dio da fiera, da erma, bivio o stradone,
patrono di viandanti e psicopompo.

“Sul battello cerca uno col bastone di frassino”,
disse mio padre a sua sorella che partiva
per Londra, “stagli vicino tutta la notte

e sarai in salvo”. Che scorra, scorra pure
 il viaggio dell’anima con la sua guida,
ed i misteri di intermediari col bastone!


Il fusto di pioggia
Capovolgi il fusto e quello che succede
è una musica che non avresti sperato mai
d’udire. Lungo il secco stelo di cactus scorrono

acquazzoni, cascate, rovesci, risacche.
Ti lasci attraversare come un condotto
d’acqua, poi lo scuoti di nuovo leggermente

ed ecco un diminuendo che corre per le sue scale
come una grondaia gemente. Di seguito,
uno spruzzo di stille da foglie irrorate,

sottile umidità d’ erba e margherite;
poi mille luccichii come soffi di brezza.
Capovolgi ancora il bastone. Quel che succede

non è sminuito dall’essere accaduto una volta,
due, dieci, mille volte prima.
Che importa se tutta la musica che traspare

è un cadere di pietriccio e semi secchi lungo un fusto
di cactus! Sei come l’uomo ricco accolto in paradiso
attraverso il timpano di una goccia di pioggia. E adesso
riascolta.

venerdì 30 agosto 2013

CREDERE IN UN SOGNO

Autore: Rodolfo Marangotto

Credere in un sogno non è retorica, non è ovvietà! Credere in un sogno è impegno, è determinazione! Se il sogno è quello espresso da Martin Luther King il 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Washington, crederci è un dovere!

Un dovere di tutti gli uomini per rispetto a tutti gli uomini, per rispetto verso se stessi, i propri cari e i propri figli.
Martin Luther King ha donato alla civiltà questo sogno; a noi il dovere di realizzarlo! Perché non è solo con la commemorazione dei grandi eventi che si sostengono le grandi conquiste civili, ma con la partecipazione e l'impegno nostro di tutti i giorni; solo così possiamo difendere la nostra libertà, la libertà di tutti.

A noi l'onere di salvare dall'indifferenza il sogno di uomo per gli uomini.




lunedì 26 agosto 2013

OPZIONE-KOSOVO PER LA SIRIA?

Autore: Emiliano Bonatti


Il regime siriano ha autorizzato, nella giornata di ieri, gli ispettori delle Nazioni Unite a visitare le zone teatro della strage causata la settimana scorsa nella periferia di Damasco dall'utlizzo di armi chimiche. La Reuters riporta che nella mattinata di oggi gli esperti stanno lasciando il proprio albergo per dirigersi verso il sito. Gli Stati Uniti sostengono che l'autorizzazione sia arrivata con grave ritardo in quanto le prove di un reale conivolgimento delle truppe governative potrebbero essere già state cancellate. Al contrario Assad, in un'intervista ad un giornale russo, sostiene come sia impensabile che un esercito utilizzi armi chimiche in una zona in cui i suoi stessi soldati siano impegnati, rilanciando implicitamente l'accusa nel campo dei ribelli additati dal dittatore come i veri organizzatori della strage, mossa da esigenze di mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale sul conflitto siriano.

Da chiunque sia partito l'ordine di una simile barbarie, il risultato dell'internazionalizzazione totale della questione siriana è stato raggiunto. La guerra civile che dura ormai da più di due anni, con oltre 100.000 morti sulle spalle, era ormai finita ai margini dell'opinione pubblica mondiale: le guerre lontane, se non hanno sussulti clamorosi, finiscono lentamente nell'oblio. Ecco dunque un evento talmente grave da diventare un fondamentale spartiacque nella storia del conflitto. Per il Kosovo fù il cosidetto "massacro di Racak" a segnare il punto di non ritorno e ad obbligare "moralmente" i paesi occidentali ad intervenire contro Milosevic, in Siria potrà essere, appunto, il massacro del quartiere di Ghouta. Anche per Racak vennero ventilati dubbi su chi fosse il vero mandante, il regime serbo, infatti, accusò apertamente i ribelli dell'Uck di aver montato ad arte l'evento. Un’apposita commissione d’inchiesta internazionale escluse che si potesse realmente risalire ai colpevoli ma ormai il dado era tratto. Gli Stati Uniti e gli alleati della Nato, spinti dallo sdegno dei propri cittadini, non potevano più rifiutarsi di intervenire a dimostrazione del fatto che l'opinione pubblica, nelle democrazie occidentali, ha spesso un potere devastante rispetto all'eterno temporeggiare dei propri governanti in materia di relazioni internazionali.

La Siria di oggi ricorda molto il Kosovo di fine anni '90. Gli Stati Uniti si trovano di fronte al superamento di quella "linea rossa" che Obama aveva tracciato per il regime di Assad, ma allo stesso tempo di fronte alla totale mancanza di volontà di intervenire in un teatro che agli americani può portare solo enormi problemi. Tutti sanno, però, che in politica internazionale (e a maggior ragione in momenti di crisi) se la minaccia non è mai seguita dall'azione l'attore rischia di perdere lentamente la propria forza e la propria influenza. Molto probabilmente Obama aveva tracciato quella linea convinto che Assad non l'avrebbe mai superata, per paura di pesanti ritorsioni. Oggi questo è successo e la situazione vincola ormai pesantemente gli Stati Uniti ad un intervento forte e deciso, pena la perdita di credibilità. La Francia spinge per un intervento sul campo ma le opzioni restano, ad oggi, decisamente limitate.

Un intervento armato pienamente "legale" dal punto di vista del diritto internazionale è, attualmente, impensabille. Diritto e prassi garantiscono al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il monopolio legale dell'uso della forza a livello internazionale, rendendolo l'unico organo deputato alla legittimazione di un eventuale intervento armato. E' però ovvio che Russia e Cina porrebbero il veto a qualsiasi proposta che vada in quella direzione, rendendo impossibile qualsiasi opzione proposta da altri stati membri. Ecco dunque che prende piede l'opzione-Kosovo, ovvero l'utilizzo dell'iter che aveva portato all'intervento Nato contro il regime di Slobodan Milosevic nel marzo del 1999.

In quella situazione, nella stessa impossibilità di ottenere un pieno mandato dal Consiglio di Sicurezza (la Russia sosteneva la causa della Rep. Fed. Jugoslava guidata dalla Serbia), la Nato decise di intervenire militarmente giustificandosi con la necessità di difesa dei diritti umanitari e appoggiandosi ad interpretazioni di "implicite" autorizzazioni all'uso della forza in alcune risoluzioni del Consiglio stesso. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per tentare di capire se l'intervento dell'Alleanza Atlantica fosse in qualche modo legittimo, oltre che "dovuto", per far cessare un conflitto che stava causando quasi un milione di profughi nel teatro kosovaro. Ragionando in termini di diritto, sia in riferimento alle norme sull'uso della forza sia a quelle del diritto bellico internazionale, l'azione armata fu assolutamente illegittima. Alcuni degli stessi Stati partecipanti ai raids, come Francia e Germania, nell’impossibilità pratica di sostenere la legalità dell’intervento, si affrettarono al termine del conflitto a sottolineare l’eccezionalità del caso e la sua inidoneità ad essere considerato come base per una futura prassi interventista al di fuori del sistema delle Nazioni Unite.

Se, dunque, questo sarà il solco da seguire per un intervento in Siria, la Nato (o chi per essa) dovrà affrontare le altrettanto legittime rimostranze del regime siriano e di eventuali alleati. La differenza profonda col Kosovo, però, risiede nel fatto che Milosevic agiva in un teatro ben più stabile dell'attuale medio-oriente (le guerre balcaniche erano appena finite e nessuna nazione aveva il minimo interesse a ripiombare in qualche conflitto) e non poteva vantare un seguito di alleanze, al di là della Russia, di un certo calibro. La Siria, invece, si trova per natura in un'area in cui una piccola miccia potrebbe incendiare un intero sub-continente e ha già trovato la sponda di alcuni alleati potenti. L'Iran, tramite il proprio ministro degli esteri, ha avvisato gli Stati Uniti segnalando come "No international license exists for military intervention in Syria. We hope that White House officials are wise enough to not enter such a dangerous battle. Statements of provocation by American military officials or actions such as sending warships do not help solve the issue and will make the region's situation more dangerous". In aggiunta, nella situazione kosovara la Nato aveva un interlocutore ben definito che rappresentava la globalità dei ribelli, l'Uck. In Siria, attualmente, esistono svariati gruppi di rivoltosi che non hanno una guida comune e il rischio è quello di far piombare la situazione siriana post-regime in un caos simile a quello libico.

La strada per la soluzione della guerra civile siriana, dunque, è in perenne salita. Il ritrovamento di prove schiaccianti da parte degli inviati dell'Onu su reali responsabilità di Assad nella mattanza di Damasco potrebbe dare una spinta notevole verso l'intervento armato, rendendolo maggiormente giustificabile anche al di fuori del sistema decisionale delle Nazioni Unite, bloccato dai veti di Russia e Cina. Di certo, legittima o meno che possa essere, un'azione armata potrebbe dar vita ad una catena di eventi che può realmente far implodere i delicatissimi equilibri su cui si regge attualmente il medio-oriente. E questo Obama lo sa benissimo.


Fonti:
www.reuters.com
Emiliano Bonatti: "Il ruolo delle Organizzazioni Internazionali nella disgregazione della Jugoslavia: genesi, sviluppo e legittimità dell'intervento Nato in Kosovo". 

mercoledì 21 agosto 2013

EUROPA, IL MOMENTO DI SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE

Autore: Angelo Paulon



La diplomazia europea vive giorni di grande impegno. L’esplosiva situazione egiziana, unita al proseguire senza fine della guerra civile in Siria (secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, violenti scontri sono in corso oggi nei pressi di Ras al-Ayn, nel nordest del paese, tra milizie curde e ribelli affiliati a fazioni qaediste), sono solo due delle molte questioni sul tappeto. Ma la contingenza del momento fa sì che proprio l’Egitto sia ora in cima alla lista delle preoccupazioni dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'UE, Catherine Ashton.

Oggi, 21 agosto, i ministri degli Esteri dei paesi dell’UE si riuniscono a Bruxelles proprio con l’Egitto come tema unico dell’incontro. Cosa ci si può aspettare da tale riunione? Alcuni organi di stampa hanno felicemente riassunto l’obiettivo del vertice con l’espressione “condannare le violenze senza compromettere il futuro”. E in effetti, inviare un messaggio forte ma al tempo stesso costruttivo ai principali attori della crisi egiziana sembrerebbe, in linea di principio, molto saggio e lungimirante.

Peccato che la situazione sul campo, questa volta, consenta solo limitate acrobazie dialettiche. L’Egitto è ovviamente uno dei paesi chiave della regione. Dall’evolversi della crisi dipende non soltanto il suo futuro, ma quello dell’intero Medio Oriente nei prossimi decenni. Non è un caso che tutti gli attori interessati a espandere o conservare la propria influenza sull’area abbiano già chiaramente fatto la loro scelta di campo.

Da un lato il premier turco Erdogan, che ha dichiarato di ritenere Israele responsabile della destituzione del presidente Morsi, da lui considerata un colpo di stato. Erdogan è sempre stato vicino a Morsi e alle posizioni dei Fratelli Musulmani, in quanto il loro background ideologico è sostanzialmente simile. Non a caso, sia il premier turco che l’ormai ex presidente egiziano si sono distinti per politiche analoghe: le graduali purghe contro i militari (basti pensare alla condanna all’ergastolo dell’ex capo di stato maggiore turco Ilker Basbug per il suo ruolo in un presunto complotto volto a rovesciare Erdogan) o provvedimenti socio-culturali indicatori di una chiara visione islamista della società (sempre in Turchia, il ritorno all’abbigliamento islamico per le donne, bandito sin dai tempi di Ataturk; le lezioni obbligatorie di Corano nelle scuole; le restrizioni alla vendita di alcolici).
Anche l’emirato del Qatar ha sin dall’inizio della crisi condannato l’intervento dei militari egiziani. Da molto tempo il Qatar supporta i Fratelli Musulmani in Egitto (anche con aiuti finanziari, che non a caso sono aumentati esponenzialmente dopo l’elezione di Morsi alla presidenza della Repubblica), così come i loro omologhi siriani e altri movimenti affini, come Hamas nella Striscia di Gaza.

Dall’altro lato la maggior parte dei paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, sostengono invece apertamente l’azione dell’esercito egiziano. Il principe saudita Abdullah bin Abdul Aziz ha espresso già la scorsa settimana il suo pieno supporto ai militari egiziani nella loro “lotta contro il terrorismo”. Sulle stesse posizioni dei sauditi troviamo anche Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Israele, sebbene sottotraccia, sta informando le cancellerie dei paesi occidentali che, a suo parere, un solo attore è in grado di promuovere e sostenere un governo stabile che diriga l’Egitto: l’esercito. Se lo si abbandona, il paese farà la fine della Siria o della Libia. Dunque, bisogna prima rimettere lo stato in carreggiata, e solo in un secondo momento si potrà provare a riavviare il processo democratico. Inoltre, lo stato ebraico sta cercando di convincere Obama che non appoggiare i militari egiziani nella loro azione potrebbe compromettere ulteriormente anche la già delicata situazione nel Sinai (terreno fertile per l’insediamento di terroristi islamisti) e danneggiare gli sforzi volti a far proseguire i negoziati di pace israelo-palestinesi.

In sostanza, i fronti pro e contro l’esercito del paese dei faraoni si sono già ben delineati. Dove si colloca l’Europa? 

Sembra certo che gli europei puntino a mantenere un ruolo di mediazione tra l’esercito e la fratellanza musulmana. Una posizione che tuttavia non sembra essere frutto di una chiara visione strategica, quanto piuttosto della consueta divisione tra gli stati membri. C’è infatti chi ha già autonomamente deciso di bloccare le forniture di armi ai militari (Italia e Germania) e chi da parte sua, come la Danimarca, ha sospeso l'erogazione dei finanziamenti ai progetti di sviluppo o alle istituzioni pubbliche egiziane. Altri paesi si dimostrano invece più cauti: di certo, comunque, tra le opzioni in discussione figurano il congelamento degli aiuti finanziari al Cairo e la sospensione degli accordi militari e di sicurezza.

Il problema, però, è di più ampio respiro e non riguarda soltanto il pur corposo programma di assistenza varato da Bruxelles nel novembre 2012: circa 5 miliardi di Euro per il periodo 2012-2014, destinati soprattutto a migliorare la vita quotidiana degli egiziani. La questione è prettamente geopolitica: quale ruolo vuole avere l’Europa in Egitto e nell’intero Medio Oriente? L’UE, tradizionalmente uno dei principali donatori e il maggiore partner commerciale del paese dei faraoni, desidera essere un leader e provare a gestire finalmente la situazione da protagonista, o si accontenterà di fare la comparsa adeguandosi a quanto verrà prima o poi deciso dagli USA? I quali, detto per inciso, non possono tergiversare troppo, dato che sono stati “avvisati” dai sauditi che qualsiasi decisione prendono ora avrà ripercussioni nelle loro relazioni a lungo termine col mondo arabo e musulmano.

Senza dubbio, come afferma l'inviato UE per l'Egitto, Bernardino Leon, “non c’è una soluzione facile”. Congelare gli aiuti economici, dando così un segnale forte ai militari egiziani affinché allentino la morsa sulla popolazione? In questo caso il rischio è perdere ulteriormente influenza economica e politica nella regione. Influenza, peraltro, sempre più minacciata dai paesi ricchi della regione, specialmente l’Arabia Saudita. Proprio Riad ha fatto sapere, lunedì scorso, che i Paesi arabi sono pronti a compensare ogni calo degli aiuti occidentali all’Egitto. Il che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per USA ed Europa.

Sospendere gli aiuti militari? L’assistenza europea all’Egitto in questo campo è di 140 milioni di Euro l’anno. Briciole, se comparate al miliardo e mezzo di dollari assicurate da Washington. Dunque, un’azione solo europea avrebbe ben poco effetto. Viceversa, un’azione concordata tra USA e UE sarebbe ben più impattante. Ma si aprirebbe, in tal modo, un’autostrada per i competitors nella fornitura di armamenti: in primis la Russia, che sarebbe ben felice dell’occasione per fare cassa e, soprattutto, riposizionarsi sullo scacchiere mediorientale.

D’altro canto, dare aperto sostegno alle Forze Armate egiziane per giungere il prima possibile a una stabilizzazione del paese (come apertamente richiesto alla comunità internazionale dal Ministro degli Esteri saudita, Saud al Faysal) verrebbe interpretato come un’azione dichiaratamente ostile ai Fratelli Musulmani. Inoltre,  l’Europa presterebbe il fianco al fuoco di fila delle critiche. Non è difficile immaginare la reazione di certi ambienti intellettuali e culturali in un caso simile: come può l’UE chiudere gli occhi di fronte a quelle che, per gli standard occidentali, sono evidenti violazioni dei più elementari diritti umani? Il valore della democrazia è meno importante del mero interesse economico-politico?

E dunque, parafrasando l’ormai fuori moda Lenin, “che fare”? Per l’Europa si tratta di un dilemma che implica rischi e opportunità in pari grado. Una scelta di campo chiara, precisa e netta, qualsiasi essa sia, comporterebbe il pericolo di crearsi nuovi nemici e di riaccendere vecchie ostilità (ad esempio, a nessuno può sfuggire l’impatto sui movimenti islamisti di un’eventuale scelta di campo a favore dell’esercito egiziano e i connessi rischi per cittadini e paesi europei). Ma tale scelta porterebbe con sé anche l’opportunità di affermarsi, finalmente, come un attore che vuole (ri)acquistare quel ruolo sullo scacchiere mondiale che, in potenza, potrebbe sicuramente recitare.

C’è da scommettere che, come sempre più spesso accade, la scelta non sarà univoca. Tra distinguo, rivendicazioni di autonomia in politica estera, interessi economici e geostrategici differenti, anche stavolta probabilmente l’UE non parlerà con una voce sola (o, se lo farà, si tratterà del solito compromesso al ribasso). Dando ragione, per l’ennesima volta, a tutti coloro che sostengono che la politica estera dell’Europa, semplicemente, non esiste.

Fonti
http://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2013/08/16/Saudi-King-Abdullah-declares-support-of-Egypt-against-terrorism.html
http://www.cnsnews.com/news/article/saudis-warn-west-we-won-t-forget-your-stance-egypt
http://www.israele.net/messaggio-da-israele-prima-evitare-che-legitto-vada-a-pezzi-poi-pensare-alla-sua-democrazia
http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Israel-warns-US-Alienating-Egyptian-army-might-risk-peace-talks-323642

martedì 20 agosto 2013

"BACK HOME" TERRORISM: UN PERICOLO REALE PER L'EUROPA?

Autore: Emiliano Bonatti




Come è solito fare, Stratfor (www.stratfor.com) propone interessantissimi spunti di riflessione sulle questioni internazionali. All'interno di un'analisi del 19 agosto viene affrontato il tema relativo alla minaccia dei cosidetti "European Jihadists" ovvero quei cittadini europei partiti come volontari per combattere nei tumulti nord-africani e medio-orientali che, una volta tornati in patria, possano dar vita a cellule terroristiche islamiche nel vecchio continente.

Alcune stime ufficiali parlano di circa 500 cittadini europei impegnati attivamente nel conflitto siriano. La maggior parte di questi è composta da cittadini britannici, francesi e irlandesi ma vengono segnalati in buon numero anche austriaci, spagnoli, svedesi e tedeschi. Nei paesi più colpiti dal fenomeno, la potenziale minaccia posta in essere dal ritorno in patria di islamisti radicali, addestrati da cellule terroristiche nei teatri mediorientali, sta diventando un'importante questione di politica di sicurezza. Da un lato esiste una difficoltà oggettiva di controllo dell'immigrazione nei paesi di confine dell'Unione Europea che, legata alla libertà di circolazione interna garantita a tutti i cittadini dell'Unione (compresi dunque i volontari partiti per i fronti caldi) rende palesemente complicato il controllo su eventuali ramificazioni prettamente europee delle organizzazioni terroristiche.

Diversi paesi, tra cui l'Italia, hanno sollecitato il Parlamento Europeo verso la prospettiva di creazione di un database unificato di controllo dei passeggeri in entrata ed uscita dai confini di Schengen. Lo stesso Parlamento, però, ha frenato il progetto per il timore di violare i diritti sulla privacy dei cittadini. L'esigenza è quella di perfezionare e rafforzare i controlli per evitare che alcune "enclave" musulmane all'interno dei confini europei, da sempre restie all'integrazione, possano diventare vere e proprie basi d'appoggio per militanti addestrati in zone come il Pakistan, la Siria, l'Afghanistan o lo Yemen.

Il rischio di un abbassamento del livello di allerta è quello di dare fiato alle istanze dei partiti della destra europea, come il Front National francese o il Freedom Party olandese, che stanno già utilizzando la potenziale minaccia dei "back home terrorists" come arma di propaganda per le proprie posizioni anti-immigrazione.

La sfida, tra le tante, per l'Unione Europea si sposta dunque su un terreno che nessuno, alle origini del progetto d'integrazione, poteva nemmeno immaginare. Vedremo se i leader europei saranno in grado di dare risposte concrete alle paure dei propri cittadini senza tradire allo stesso tempo il messaggio originale di inclusione e apertura verso la storica presenza musulmana nel continente. 

venerdì 16 agosto 2013

L'EGITTO IN FIAMME E L'EQUILIBRISMO DI OBAMA

Autore: Emiliano Bonatti




L'Egitto si prepara ad una nuova giornata campale dopo che l'intervento di mercoledì da parte della polizia e dell'esercito ha di fatto dato il via alla guerra civile nel paese dei Faraoni. I Fratelli Musulmani hanno indetto per oggi la "marcia della rabbia", che non mancherà certo di aizzare ulteriormente gli animi in una situazione ormai altamente esplosiva. Le responsabilità vengono rimbalzate da una fazione all'altra: i manifestanti accusano la polizia di aver commesso una strage di innocenti, le forze dell'ordine mostrano video in cui i sostenitori di Morsi sparano agli agenti. Come sempre, in mezzo al caos, la verità non si potrà mai conoscere. Restano però i fatti: una nazione in fiamme all'interno di un contesto geopolitico altamente instabile. La miccia accesa in Egitto può pericolosamente propagarsi al di là dei patrii confini.

Il problema non è più, dunque, di semplice politica interna (ammesso che lo sia mai stato). Diventa sempre più un fardello che i capi di stato mondiali non possono far finta di relegare a semplice questione locale. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, invitato a riunirsi da Francia, Gran Bretagna e Australia, ha svolto il suo solito sterile compitino partorendo una mini dichiarazione in cui, ovviamente, si condannano le violenze e si sostiene che "there was a common desire on the need to stop violence and to advance national reconciliation". Non ci si poteva aspettare molto di più perchè, da un lato, finchè la situazione egiziana non verrà riconosciuta ufficialmente come "minaccia alla pace internazionale" il Consiglio non ha competenza per eventuali interventi diretti. Ma quand'anche si raggiungesse tale livello, con Cina e Russia che finora nicchiano sull'argomento e gli Stati Uniti impegnati nell'equilibrismo diplomatico di questi giorni, lo stesso Consiglio finirebbe come sempre schiacciato dalle sue obsolete procedure decisionali che lo rendono ormai impotente come guardiano della pace.

Gli Stati Uniti, appunto, sembrano viaggiare sul filo sottilissimo di un equilibrista che non vuole rischiare di cadere su una via troppo dannosa. Da un lato c'è la difesa a oltranza dei principi democratici che nessun presidente americano (nemmeno Bush avrebbe potuto) potrebbe mai tradire in qualsivoglia dichiarazione ufficiale: ecco dunque le affermazioni di condanna verso la repressione. Dall'altro lato c'è il rischio di perdere progressivamente l'influenza sull'esercito egiziano, sovvenzionato da Washington con un miliardo e mezzo di dollari all'anno. La scelta di Obama è stata quella di cancellare una pressochè inutile esercitazione militare congiunta senza però minacciare ulteriori conseguenze. Il Segretario alla difesa Hagel ha telefonato al generale Al-Sissi ventilando il rischio di ricadute sulla cooperazione tra Usa ed Egitto in tema di difesa, ma allo stesso tempo rassicurandolo sul mantenimento delle relazioni militari tra i due Stati.

Diverse critiche sono piovuto in patria sull'atteggiamento del presidente. La Reuters riporta dichiarazioni di diversi ex ufficiali americani che accusano apertamente Obama di essersi giocato l'influenza sui generali egiziani, considerate anche le dichiarazioni delle autorità del Cairo che sottolineano come le dichiarazioni di condanna da parte della Casa Bianca non siano "based on "facts" and will strengthen and encourage violent groups". Di fatto, secondo le accuse, l'assistenza degli Stati Uniti viene ad oggi considerata come "desiderabile" ma non certo "essenziale" in quella che ormai i militari egiziani considerano come una lotta esistenziale contro i Fratelli Musulmani. All'orizzonte c'è anche la promessa di aiuti economici da parte di diversi Stati arabi al governo in carica dopo la deposizione di Morsi. Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi hanno assicurato supporti finanziari per 12 miliardi di dollari, una cifra che fa sembrare insignificanti gli aiuti americani e aumenta il rischio di perdita di influenza in un'area cruciale per gli interessi di Washington. 

Obama non potrà continuare per molto il proprio equilibrismo, anche se un eventuale intervento diretto sarebbe di difficilissima gestione. Un possibile sviluppo potrebbe essere quello di lasciare, come in Libia, l'eventuale gestione della questione a qualche alleato di "buona volontà" anche se nessuno al momento, al di là delle frasi di circostanza, sembra aver intenzione di affrontare realmente l'affare egiziano. Soprattutto per il fatto (come ho già detto in un altro post) che la transizione democratica dei paesi arabi ha un grado di difficoltà pressochè invalicabile, a causa della non maturità delle stesse società/istituzioni rispetto ai principi democratici. Questi principi, le fondamenta socio-politico-culturali della democrazia, non si creano dal nulla e, senza di loro, la democrazia stessa resta pura utopia.

lunedì 12 agosto 2013

SCONTRI DI CIVILTÀ (?). LE VIOLENZE TRA BUDDISTI E MUSULMANI INFIAMMANO L’ASIA


Autore: Angelo Paulon




Quella dello “scontro di civiltà” viene spesso considerata, in Europa e negli USA, una teoria che preconizza un più o meno prossimo conflitto radicale tra il mondo islamico e quello occidentale. Comprensibilmente, lo choc dovuto all’11 settembre e alle sue conseguenze (le guerre in Afghanistan e Iraq, la caccia a Bin Laden, la lotta contro Al Qaeda, …) fa in modo che, in Occidente, ci si concentri soprattutto sull’inconciliabilità (o supposta tale, a seconda dei punti di vista) tra i valori fondanti le democrazie di stampo liberale e quelli alla base dell’Islam. È poi singolare notare come quando vi sono notizie di scontri interetnici o interreligiosi che non vedono direttamente coinvolti cittadini occidentali o gruppi di cristiani, a essere sotto la lente d’ingrandimento è soprattutto il Medio Oriente, data la sua prossimità geografica all’Europa e la sua importanza globale in termini geopolitici. Eppure, anche qui, quando gli scontri non sono più breaking news o quando i conflitti si incancreniscono e diventano duraturi (vedi Siria), lo spazio dedicato a questi avvenimenti e l’interesse dell’opinione pubblica tendono a scemare piuttosto velocemente.

In realtà, gli scontri tra diversi gruppi confessionali e/o etnici che non appartengono, né geograficamente né culturalmente, al mondo occidentale sono all’ordine del giorno. Non si tratta di avvenimenti sporadici e occasionali, quanto di episodi organizzati e pianificati nel contesto di conflitti molto più ampi. L’escalation cui si assiste è impressionante, e l’ondata di attentati che ha insanguinato l’Iraq provocando una novantina di morti in occasione delle festività per la fine del Ramadan (10 agosto) ne è solo l’ultimo esempio in ordine di tempo. Questi specifici attacchi riguardano lo scontro, tutto interno all’Islam, tra sunniti e sciiti. Lo dimostra la puntuale rivendicazione di Al Qaeda, giunta tramite l’organizzazione radicale affiliata che si definisce Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. I terroristi hanno rinnovato le loro minacce agli sciiti, che a loro dire non potranno più sentirsi al sicuro.

Ma ci sono anche altri fronti molto caldi nel mondo. In Asia si assiste, già da tempo, a una recrudescenza nelle violenze tra buddisti e musulmani. Qualche dato di cronaca può illustrare la situazione in maniera chiara. 2004: nelle province più meridionali della Thailandia, al confine con la Malesia, prende il via un’insurrezione contro il governo centrale. La guerra civile tra esercito e separatisti locali, popolazioni a maggioranza musulmana, sino a oggi ha provocato almeno 5.000 vittime. 2012: a giugno e a ottobre, nella regione di Rakhine (Myanmar occidentale) esplodono violentissimi scontri interreligiosi tra buddisti e musulmani di etnia Rohingya; si contano almeno 80 morti e decine di migliaia di sfollati (vi è un’ostilità di lunga data tra i birmani, in particolare i buddisti Rakhine, e i Rohingya, che gli abitanti del luogo non considerano come compatrioti. Il governo del Mynmar, dal canto suo, sostiene la tesi che i Rohingya sono immigrati in tempi relativamente recenti dal subcontinente indiano e dunque non posseggono i requisiti di “popolazione indigena” per avere la cittadinanza birmana). A seguito delle violenze, non meno di 30.000 persone trovano rifugio in Bangladesh, che però ne rimanda indietro a migliaia. L’ONU deve intervenire per sollecitare il Bangladesh ad accogliere i profughi per ragioni umanitarie. Marzo 2013: più giorni consecutivi di scontri nella città di Meiktila (Myanmar centrale) lasciano sul terreno almeno 40 persone, in maggioranza musulmani. Aprile 2013: in un campo profughi di Belawan, nel settentrione di Sumatra (Indonesia), carneficina con 8 buddhisti birmani morti e 20 feriti tra buddhisti e musulmani Rohingya. Maggio 2013: le violenze deflagrano nella città di Lashio, nella regione dello Shan (Myanmar nord-orientale). 4 agosto 2013: un doppio ordigno esplode all’interno del tempio buddista Ekayana a Jakarta (Indonesia), ferendo tre persone. 10 agosto 2013: un gruppo di estremisti buddisti attacca una moschea di Colombo (Sri Lanka) scontrandosi con gli abitanti musulmani della zona; si contano almeno cinque feriti e la polizia è costretta a imporre il coprifuoco.

Scorrendo questo pur breve elenco, sono due i fattori a risultare più evidenti: la frequenza con cui gli scontri avvengono e la loro diffusione territoriale.

Non c’è dubbio che ogni situazione faccia storia a sé. In Thailandia, per esempio, le province meridionali di Narathiwat, Yala e Pattani sono a netta maggioranza musulmana e un tempo erano un sultanato autonomo, Malay. Questi territori costituiscono la base operativa di vari gruppi separatisti di matrice islamico-fondamentalista, che mirano all’autonomia dalla Thailandia e, se possibile, alla rinascita del sultanato.

Nello Sri Lanka, i buddisti accusano i musulmani di controllare settori chiave del commercio e della finanza cingalese e di spingere la popolazione buddista a convertirsi all'Islam. Per di più, il buddismo si fonde all’etnia in un processo di identificazione che tende a privilegiare l’elemento nazionale radicalizzando le differenze con “gli altri”. Ecco allora che organizzazioni come il BBS (Bodu Bala Sena, traducibile a grandi linee come “forza buddista”) hanno gioco facile a riscuotere successo tra la popolazione grazie a una posizione politica fortemente intollerante verso i musulmani, il cui alto tasso di natalità è percepito come pericoloso, in prospettiva, per l’identità nazionale.

Nel Myanmar la situazione è, se possibile, ancora più drammatica. Le violenze del 2012 e dell’anno in corso hanno già provocato, oltre a decine di morti, più di 100.000 senza tetto. La città di Sittwe, nella regione di Rakhine, è ormai svuotata dei suoi abitanti di fede musulmana, costretti a trasferirsi in squallidi campi profughi ai margini della città. Il meglio cui costoro possono aspirare è raggiungere via mare la Malesia su qualche malandato peschereccio, nella speranza di superare indenni la traversata. Le tensioni interreligiose sono alimentate anche da un movimento di monaci birmani, che invita a boicottare negozi e attività dei seguaci di Maometto. L’esponente di punta di questo movimento è il celebre monaco Wirathu, conosciuto come il “Bin Laden birmano”. Intervistato nei mesi scorsi dal settimanale Time, ha apertamente espresso la propria visione delle cose: “[Muslims] are breeding so fast and they are stealing our women, raping them […] They would like to occupy our country, but I won’t let them. We must keep Myanmar Buddhist”. La stessa Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, è stata più volte criticata dai gruppi internazionali a tutela dei diritti umani per non aver chiarito la sua posizione sui problemi delle popolazioni coinvolte dall’ondata di odio e violenza diffusa in diverse città.

Bisogna però fare attenzione a non etichettare questi conflitti come semplici questioni interne ai vari paesi. In realtà, le violenze interconfessionali hanno già provocato importanti reazioni a livello internazionale. Si sono avute manifestazioni pacifiche, come una marcia di solidarietà ai Rohingya tenutasi a Mumbai, in India, da parte della comunità musulmana locale. Ma vi sono stati anche attacchi terroristici: il 7 luglio uno dei siti più importanti per il buddismo indiano, il Bodh Gaya di Bihar, è stato oggetto di un attentato molto probabilmente opera di un gruppo islamico. Non sono mancate altre prese di posizione ostili nei confronti dei buddisti e solidali con i musulmani. In Indonesia, il più popoloso stato islamico del mondo, sono state organizzate molte raccolte di fondi a favore dei Rohingya. La solidarietà religiosa ha però preso anche una piega più violenta: ad aprile un religioso islamico radicale, Abu Bakar Basyir, ha chiamato alla jihad contro i buddisti del Myanmar. Forse non casualmente, in maggio due uomini sono stati arrestati perché sospettati di pianificare un attentato con pipe-bombs contro l’ambasciata birmana di Jakarta. Non è tutto: secondo ambienti vicini ai servizi di sicurezza, pare che lo scorso 19 giugno si sia tenuto a Jakarta un meeting tra il Forum Umat Islam, un gruppo estremista indonesiano, e due esponenti della Rohingya Solidarity Organization (RSO). Lo scopo potrebbe essere stato quello di studiare come fornire armi ai Rohingya affinché costoro possano contrattaccare. Di certo, sembra abbastanza plausibile che i Rohingya cerchino supporto tra altri gruppi di correligionari. Così come pare logico pensare che l’intervento, diretto o indiretto, di altri gruppi terroristici nell’area non promette niente di buono.

Pur nelle specificità nazionali, che non possono essere sottovalutate, stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza un paio di fattori comuni a questi conflitti. Il primo è il già parzialmente citato processo di identificazione etnico-religiosa che porta il buddismo a diventare trait d’union tra diversi elementi della società, sia in vista di un rafforzamento dell’identità nazionale che in funzione anti-islamica. Processo al quale si sommano e con il quale si combinano elementi di contingenza e convenienza politica. In Myanmar, ad esempio, c’è la concreta possibilità che alcuni partiti di minoranza (segnatamente la National Democratic Force, NDF) presentino un progetto di legge (sponsorizzato da Wirathu e dai suoi seguaci) volto a limitare la possibilità di matrimoni interconfessionali. Il tutto per puro calcolo elettorale, al fine di far leva sui sentimenti nazionalistici e anti-islamici della popolazione buddista e guadagnare voti per tentare di evitare la più che probabile vittoria a valanga alle prossime elezioni del partito di Aung San Suu Kyi, la National League for Democracy (NLD).

Il secondo fattore comune alle violenze è, forse sorprendentemente, il ruolo dei monaci. L’immagine del buddismo come religione della tolleranza e della non violenza esce da questi mesi di scontri piuttosto modificata. È vero che, da un lato, i monaci possono essere usati come delle pedine in un gioco strategico più sofisticato e che la loro presenza può fornire una copertura ideologica ai conflitti (è il caso, ancora una volta, del Myanmar, dove non si può escludere che le attuali tensioni siano orchestrate anche da ex appartenenti alla giunta militare che governava il paese. Ora questi elementi potrebbero mirare a portare instabilità nel paese, per minare le riforme politiche in chiave democratica degli ultimi tre anni). Ma è altrettanto evidente che emerge, nello Sri Lanka e in Myanmar, così come in Thailandia, una forte militanza patriottica fra i monaci buddisti, sempre più inestricabilmente legati agli eserciti, dai quali ricevono protezione. in Thailandia, ad esempio, monaci ed esercito fanno apertamente fronte comune; i religiosi consentono alle forze armate di usare i templi come basi operative contro i ribelli musulmani e ci sono anche casi di monaci-soldato: “In fighting the Muslim insurgents, the Thai army has become inextricably bound up with Buddhist monks. Temples are used as army bases, and “soldier monks” are said to operate”. Per converso, i ribelli ritengono i monaci come obiettivi specifici da colpire, in quanto vengono visti come simbolo dell’autorità del governo thailandese. A riprova del sempre più stretto legame tra religione, nazionalità e autorità governativa. Legame che, sul fronte opposto, è giocoforza utilizzato in chiave anti-islamica e anti-separatista.

In conclusione, quindi, sembra proprio che elementi comuni alle singole situazioni interne di vari paesi, propaganda, reti di solidarietà confessionale, aiuti economici e militari transnazionali (veri o presunti) rendano le tensioni sempre meno un fattore interno ai vari stati e sempre più un confronto totale tra due delle più grandi religioni dell’Asia. Nei primi mesi di quest’anno sono iniziati i colloqui di pace ufficiali tra il governo di Bangkok e i ribelli islamici delle province del sud, rappresentati dal gruppo Barisan Revolusi Nasional. Si sono tenuti già tre round di questi negoziati, sotto l’auspicio della Malesia, paese nel quale si tengono gli incontri. C’è da augurarsi che le parti riescano a trovare un accordo che possa, se non porre termine al conflitto thailandese, almeno costituire un buon punto di partenza per smorzare la tensione nell’area e abbassare la temperatura in una zona già di per sé molto calda. Se, al contrario, non si dovesse trovare nessuna soluzione, i rischi di una nuova escalation di violenze interconfessionali aumenterebbero esponenzialmente. E qualsiasi ulteriore diffusione dell’incendio non sarebbe certo un bel segnale per il continente…

Fonti:
http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2013/08/2013811214511140106.html
http://www.heraldsun.com.au/news/breaking-news/al-qaeda-claims-iraq-deadly-attacks/story-fni0xqll-1226695290774
http://www.lastampa.it/2013/08/12/esteri/al-qaeda-rivendica-gli-attentati-in-iraq-e-minaccia-gli-sciiti-non-siete-sicuri-RVfsItAmqnUSWHCsk9xgbL/pagina.html
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-18460804
http://www.repubblica.it/esteri/2013/04/05/news/una_nuova_carneficina_a_sumatra_lo_scontro_tra_buddisti_e_musulmani-56028118/
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-22697104
http://world.time.com/2013/08/07/jakarta-bomb-a-warning-that-burmas-muslim-buddhist-conflict-may-spread/
http://freedomnewsgroup.com/2013/06/22/the-face-of-buddhist-terror/
http://wagingnonviolence.org/feature/disillusionment-and-disappointment-with-aung-san-sui-kyi/
http://www.economist.com/news/asia/21582321-fuelled-dangerous-brew-faith-ethnicity-and-politics-tit-tat-conflict-escalating

L'EGITTO SULL'ORLO DEL PRECIPIZIO

Autore: Emiliano Bonatti


E' scaduto stamattina l'ultimatum imposto dall'esercito egiziano ai sostenitori del deposto Presidente Morsi di liberare le piazze sede delle proteste anti-golpe che durano ormai da settimane. Tutte le cancellerie del mondo hanno gli occchi puntati su quanto avviene in queste ore al Cairo, perchè il rischio di duri scontri e di veri e propri "bagni di sangue" è quantomai probabile. Sono già circa 300 le vittime dei conflitti avvenuti da inizio luglio, a seguito della defenestrazione di Morsi da parte dell'esercito guidato dal Generale Al-Sissi, ed il numero è destinato a crescere esponenzialmente in caso di intervento diretto della polizia o dei militari per lo sgombero delle piazze occupate.

Al momento l'azione prevista per l'alba non è avvenuta, molto probabilmente perchè le stesse autorità temono che un'eventuale repressione possa innescare una spirale di violenza che decreti il vero big-bang della guerra civile. I Fratelli Musulmani ed i vari gruppi a loro collegati, però, non intendono mollare la presa sulla piazza. Anzi, proprio stamani hanno chiamato l'intera nazione alla mobilitazione generale contro il governo instaurato dai militari invitando "the people of Egypt in all provinces to go out on marches on Monday and gather everywhere". Da quanto trapela dalle agenzie di stampa sembra che l'invito abbia colto nel segno e proprio l'aumento del numero dei manifestanti pare essere servito da deterrente per dilazionare i tempi del previsto intervento armato.

I tentativi, peraltro ben poco determinati, da parte dei negoziatori internazionali di favorire una transizione pacifica della situazione non hanno raggiunto alcun risultato tangibile. E' d'altra parte una caratteristica intrinseca delle primavere arabe quella di non considerare gli interventi esterni come determinanti per condizionare l'evolversi delle cose, a meno che questi non avvengano, come in Libia, tramite l'uso delle armi. Ma attualmente nessuna nazione al mondo sarebbe disposta ad impegnarsi militarmente in un'eventuale guerra civile egiziana, per l'ovvio timore di restare impantanata in una scomodissima situazione sulla quale nessuno finora s'è espresso in maniera chiara. Pare ovvio che l'ìslamizzazione politica dei paesi arabi non piacerebbe a nessuno, a partire dagli Stati Uniti che vedrebbero ampliato il novero dei Paesi "nemici giurati" fino ad arrivare alla Russia che in Siria appoggia il regime di Assad nella lotta ai ribelli islamici. Dall'altro lato è ormai palese che elezioni democratiche in queste nazioni in transizione sono destinate a portare i partiti religiosi alla vittoria, grazie alla loro capacità di penetrazione nelle fasce più povere e meno secolarizzate della società.

Il problema di fondo, che piaccia o meno, risiede in uno dei cardini del processo di genesi delle moderne democrazie occidentali, ovvero l'espulsione della religione dalla gestione della "res-publica". Questo sviluppo ha permesso di relegare una questione fondamentalmente privata come il credo religioso alla semplice sfera privata dei cittadini. Finchè le istanze religiose influivano pesantemente sulla gestione della cosa pubblica la democrazia non poteva esistere perchè i valori assoluti di una parte tendevano ad essere imposti alla globalità. In democrazia, invece, un'eventuale maggioranza decide, garantendo pienamente i diritti di una minoranza sulla base della difesa di un range diffuso di valori. L'assolutismo dei valori, tipico della religione, è incompatibile col relativismo valoriale tipico della democrazia. Ed è proprio quello che è  avvenuto in Egitto quando Morsi ha tentato di islamizzare la Costituzione, prevaricando i valori portati avanti da altre "fette" della società egiziana.
La democrazia non si costruisce dal nulla, la democrazia non può essere esportata perchè si nutre di condizioni ben precise che una determinata società deve raggiungere. La costruzione democratica occidentale è stata eretta in secoli di lotte e sangue e, a quanto pare, buona parte degli Stati arabi è molto lontana dal raggiungere queste condizioni.

La situazione in Egitto può esplodere proprio in queste ore. Un'altra guerra civile nello scacchiere afro-mediorientale non porterebbe benefici a nessuno. Bisognerà valutare se l'esercito egiziano si senta abbastanza forte da potersi permettere gesti "pesanti" o se tenterà la strada della mediazione. Molto dipenderà anche dalle già segnalate infiltrazioni di terroristi all'interno dei gruppi di protesta e da loro eventuali tentativi di accendere ulteriormente la miccia.

venerdì 9 agosto 2013

FEMMINICIDIO: IL GOVERNO ALZA LA VOCE, I MEDIA SUSSURRANO!

Autore: Rodolfo Marangotto



Ho appreso con vera soddisfazione dai telegiornali di ieri che il governo ha varato un decreto legge contro il femminicidio.
Una parola che i più diffusi vocabolari interattivi non riconoscono ancora, ma che purtroppo il destino di troppe donne ha conosciuto.

Una straordinaria decisione, che non ha atteso le abituali lungaggini della politica italiana ma che ha risposto alle concrete esigenze della nostra società. Le misure introdotte non saranno l'antidoto al problema, ma consentiranno di reprimere la violenza famigliare fin dalle prime avvisaglie, ponendosi al fianco delle donne per un sostegno reale e un aiuto concreto nel superare la paura della denuncia, spesso il vero ostacolo alla cura di questo male.

Sulla scia delle tristi vicende di cronaca degli ultimi mesi, l'esecutivo al servizio di Palazzo Chigi è riuscito ad intervenire con vero spirito di dovere nonostante il mare agitato in cui naviga la politica italiana e il gravoso problema della crisi economica.

Nota dolente di questo importante passo del nostro paese è la visibilità data dai media. I telegiornali non hanno di certo dimenticato la notizia, lanciata sempre, comunque, oltre la metà della trasmissione. I quotidiani hanno dato semplicemente il peggio. Su 15 testate giornalistiche nazionali, soltanto 2 hanno avuto il coraggio di aprire la prima pagina con la notizia del decreto legge anti-femminicidio: l'Unità e il Secolo XIX.

La cosa più raccapricciante è che le notizie sparate nei titoli cubitali ruotavano tra la data (presunta) del congresso del PD, l'ennesima puntata del caso Berlusconi-Magistratura e la soppressione o salvataggio  dell'Imu!!!

Ritengo che nessuna notizia poteva meritare la pole-position rispetto al provvedimento normativo contro la violenza alle donne.

Perché i media insistono nel propinarci i risvolti più biechi di una politica ormai declassata a gossip di palazzo, senza nessuno scrupolo intellettuale? Perché non cercare uno slancio verso una diversa dimensione dell'interesse sociale, degna di un paese come l'Italia?

Le dinamiche giornalistiche ormai sono al pari di quelle pubblicitarie: indirizzare gli articoli e i titoli in funzione dell'appeal mediatico sulla gente e non risaltare l'importanza di un provvedimento politico finalizzato a diminuire la violenza e gli omicidi di donne!

Una volta tanto i nostri governanti hanno dimostrato carattere, speriamo che anche il mondo giornalistico sia più virtuoso e meno commerciale!

KASHMIR: INDIA E PAKISTAN DI NUOVO AI FERRI CORTI. MA LA GUERRA NON È (ANCORA) IN ARRIVO.


Autore: Angelo Paulon



Lo scorso 6 agosto cinque soldati indiani sono stati uccisi in un agguato nella regione del Kashmir, lungo la frontiera indo-pachistana. Nuova Delhi ha puntato il dito contro l’eterno nemico Pakistan, sostenendo che tra i responsabili dell’eccidio vi sarebbero proprio corpi speciali dell’esercito pachistano, che avrebbero varcato il confine tra i due paesi e teso un’imboscata ai militari. Il ministro della Difesa indiano A.K. Anthony ha affermato, come riporta The Hindu, "The ambush was carried out by approximately 20 heavily armed terrorists along with persons dressed in Pakistan Army uniform", oltre a sottolineare come nulla possa avvenire sul lato pachistano della zona di confine senza che l’esercito di Islamabad lo consenta. Naturalmente, il governo del Pakistan nega ogni responsabilità: un comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri del paese islamico bolla le accuse indiane come “baseless and unfounded allegations”.

Quello del 6 agosto, peraltro, non è certo un episodio isolato. Già l’8 gennaio altri due soldati di Nuova Delhi furono uccisi da truppe pachistane, probabilmente sconfinate in territorio indiano, durante un conflitto a fuoco. Alcuni osservatori ritengono che questa fosse la reazione pachistana a un analogo scontro, occorso a parti invertite un paio di giorni prima (sconfinamento  indiano e uccisione di un soldato pachistano). Si assistette anche allora ad analogo balletto di dichiarazioni, con cui entrambe le parti cercavano di addossare all’altra la responsabilità delle tensioni.

Tensioni, peraltro, di lunghissima durata: solo dal novembre 2003 un cessate il fuoco è in vigore sulla linea di confine tra i due paesi. Linea di confine in realtà provvisoria, dato che il territorio del Kashmir è conteso sin dal 1947, anno in cui la decolonizzazione inglese lasciò in eredità la cosiddetta Partizione, ovvero la suddivisione dell’ex colonia indiana in due stati, uno a maggioranza indù (l’Unione Indiana, appunto) e l’altro a maggioranza musulmana (il Pakistan). Lo stato indiano di Jammu e Kashmir, governato dal maharaja Hari Singh, inizialmente pareva infatti dover diventare uno stato indipendente. Poi, Singh decise di aderire all’Unione Indiana, delegando ampi poteri governativi a Nuova Delhi in cambio della sua protezione militare. Questo fatto, unito all’intricatissimo mosaico geografico ed etnico della regione (in cui vivono musulmani sunniti, tibetani in maggioranza buddisti, dogra punjabi, indù e musulmani sciiti) portò sia l’India che il Pakistan a intervenire militarmente, dando vita alla prima guerra indo-pachistana (1947-1949).

Dopo altre due guerre convenzionali (1965 e 1971), decenni di conflitti più o meno violenti e un’infinità di incidenti di confine e attacchi terroristici, la situazione attuale vede il territorio suddiviso tra India (che ne controlla la maggior parte e lo reclama interamente per sé), Pakistan (che ne occupa circa i due quinti e chiede un referendum con il quale la popolazione, in maggioranza musulmana, dovrebbe poter scegliere a quale stato appartenere) e Cina (che controlla a sua volta una piccola porzione di territorio, a sud-est del Passo Karakorum). L’India accusa il Pakistan di fornire armi e supporto ai separatisti, che compiono attacchi terroristici in territorio indiano; il Pakistan, a sua volta, accusa  l’India di violazione dei diritti umani.

Innegabilmente, entrambe le posizioni hanno un fondo di verità. Così come è vero che entrambe sono di volta in volta abilmente propagandate in modo da far apparire il nemico come colui che vuole radicalizzare lo scontro e cerca il conflitto a tutti i costi. Sta di fatto che, a seguito di questi indicenti di frontiera, i più gravi dal 2003, i due paesi sono diplomaticamente ai ferri corti come non avveniva da anni. Gli animi delle folle, soprattutto in India a seguito dell’imboscata del 6 agosto, sono piuttosto accesi. L’ira contro il Pakistan viene espressa nelle strade (vedi foto), l’effigie del primo ministro pachistano Nawaz Sharif viene data alle fiamme sia nel Kashmir indiano che nelle strade di Nuova Delhi, si chiede una risposta ferma a tutela dell’orgoglio nazionale.

Il riaccendersi dei focolai di tensione giunge, probabilmente non a caso, proprio mentre il governo indiano stava valutando alcune proposte pachistane per riprendere i colloqui tra i due paesi, interrotti dopo i già citati scontri a fuoco del gennaio scorso. Il Pakistan, dal canto suo, stava cercando di organizzare un vertice tra il primo ministro Sharif e il premier indiano, Manmohan Singh, a margine dell’assemblea generale dell’ONU che si terrà a settembre.

È evidente che la situazione molto calda di questi giorni rischia di portare a una brusca frenata, almeno temporanea, negli sforzi per i negoziati di pace. Cosa farà, concretamente, l’India? Il 2014 è un crocevia molto importante, dato che sono in programma le elezioni. Certamente il governo di Nuova Delhi non potrà mostrarsi troppo accomodante, temendo di essere punito per questo dagli elettori (ormai, sessant’anni di propaganda interna fanno sì che nessuno dei due governi possa permettersi di essere percepito dalla propria opinione pubblica come debole nei confronti del nemico storico). Già il BJP (Bharatiya Janata Party), attualmente all’opposizione, ha criticato l’esecutivo per voler proseguire il dialogo con gli inaffidabili vicini pachistani: un chiaro segnale che la campagna elettorale è già iniziata. Ma d’altra parte, Nuova Delhi dovrà necessariamente utilizzare un approccio pragmatico e improntato al dialogo. Come suggerisce un editoriale dell’Hindustan Times, “It is no surprise that the ghastly attack came as talks were being slated between the prime ministers of the two countries  […] But […] there is no getting away from engaging Pakistan. A new prime minister has made the right noises about peace […]  A new president is in place. At the moment, to be very realistic, India’s best bet is to talk to them”. India e Pakistan insomma, magari non volendolo, sono costrette a parlarsi.

Ecco allora che, seguendo l’esempio di Obama che ha annullato l’incontro bilaterale con Putin a margine del G20, la risposta indiana potrebbe essere analoga: nessun incontro coi pachistani, in attesa di tempi migliori. Magari intavolando parallelamente un nuovo round di contatti e colloqui preliminari, dietro le quinte, senza l’ingombrante ribalta dei media.

Lo stesso Pakistan non è in una condizione semplice, alle prese com’è con questioni interne assai spinose. Dai devastanti attacchi terroristici nel sud-ovest del paese, rivendicati dai talebani, di questi ultimi giorni (30 morti l’8 agosto, almeno 9 il giorno dopo), a una situazione economica interna molto problematica, alla complicato tema del Belucistan. Dove, è bene ricordarlo, il governo centrale pachistano ha riservato ai cittadini di etnia hazara di quella regione un trattamento non dissimile da quello imposto dai cinesi in Tibet, anche con l’aiuto di miliziani islamici e pashtun integralisti fatti emigrare appositamente nell’area al fine di spezzarne gli equilibri etnico-sociali. E dove le minoranze separatiste godrebbero, secondo Islamabad, di aiuti e sostegno da parte dell’India (guarda un po’!), con il non troppo malcelato scopo di destabilizzare il Pakistan. Insomma, il nuovo premier Sharif ha le sue belle gatte da pelare. Per non parlare dei conflitti settari tra sciiti e sunniti, in particolare nella zona di Quetta, e del pericolo potenziale che giunge dall’esercito e dal potentissimo servizio segreto (ISI), che costituiscono dei contro-poteri di enorme forza e autorità nel paese. Se è vero che un eventuale guerra aperta contro l’India potrebbe compattare l’opinione pubblica, è altrettanto chiaro che le sue conseguenze sarebbero non solo imprevedibili, ma anche devastanti in termini di costi e vite umane, e destabilizzanti dal punto di vista politico e strategico.

Quindi, in ultima istanza nessuno dei due contendenti ha al momento un interesse reale a far sì che le tensioni oltrepassino un tutto sommato “tollerabile” livello di guardia (con buona pace dei soldati, qualsiasi divisa indossino, e dei civili che sono entrati o entreranno a far parte della lista dei caduti).

Vi è, infine, un altro fattore di grande rilevanza che fa pensare all’idea di un nuovo conflitto come estremamente improbabile: entrambi i paesi sono potenze nucleari. L’effetto della dissuasione nucleare reciproca farà sì che, anche qualora dovessero occorrere nuovi scontri armati in Kashmir, la conseguenza non sarebbe un conflitto, per così dire, in campo aperto.  Lo dimostra l’esito della battaglia di Kargil della primavera 1999, quando i separatisti del Kashmir penetrarono in territorio indiano appoggiati dal sostegno logistico e dal fuoco di copertura dell’esercito pachistano. L’India respinse infine l’attacco; nonostante il diretto coinvolgimento di entrambi gli eserciti, la situazione non degenerò.

È assai più plausibile, invece, che il confronto indo-pachistano si sposti su altri fronti. In particolare, l’Afghanistan. Gli USA e la NATO, infatti, lasceranno il paese nel 2014. Questa prospettiva allarma non poco l’India, che ha investito moltissimo nello sviluppo dell’Afghanistan. È dello scorso luglio la notizia che molte imprese indiane nei settori dell’IT, agricoltura, industria estrattiva e logistica hanno siglato accordi con l’AISA (Afghanistan Investment Support Agency) destinati a portare nel giro di due anni il commercio indo-afghano oltre il miliardo di dollari. Non solo: in una più ampia prospettiva di sviluppo a medio termine, l’India sta contribuendo con 100 milioni di dollari al potenziamento del porto iraniano di Chabahar, che si affaccia sul Golfo dell’Oman. Il porto dovrebbe servire come hub per il transito di merci indiane verso l’Asia Centrale via Afghanistan, by- passando così il Pakistan. I tre paesi (Iran, India e Afghanistan) hanno siglato un accordo volto a garantire riduzioni tariffarie e una corsia preferenziale a tali traffici.

Se, come appare in fondo verosimile, il ritiro della NATO dovesse preludere a un ritorno dei talebani, si profilerebbe un doppio smacco per l’India. Da un lato, questi enormi investimenti rischierebbero di andare in fumo o di essere pesantemente pregiudicati. Con essi, verrebbe meno la prospettiva di importanti guadagni futuri per l’economia indiana. Dall’altro, non ci sono dubbi che l’ISI, avendo dato rifugio e protetto nel nord del Pakistan la leadership dei talebani dal 2001 a oggi, esigerà il proprio tornaconto.  L’Afghanistan potrebbe così ridiventare un fondamentale retroterra strategico per il Pakistan, in grado di assicuragli un punto a favore nella malaugurata ipotesi di un futuro conflitto con l’India.

Fonti:
http://www.thehindu.com/news/national/ambush-carried-out-by-terrorists-persons-in-pak-army-uniform-antony/article4995836.ece?homepage=true
http://mofa.gov.pk/pr-details.php?prID=1362
http://edition.cnn.com/2013/01/08/world/asia/india-pakistan-kashmir-clash/index.html
http://www.hindustantimes.com/editorial-views-on/Edits/Making-the-best-of-a-bad-deal/Article1-1105432.aspx
http://www.tolonews.com/en/afghanistan/11122-17-indian-companies-to-invest-in-afghanistan
http://www.satrapia.com/news/article/india-plans-shipping-afghan-goods-via-iran/

giovedì 8 agosto 2013

CRESCE LA TENSIONE TRA OBAMA E PUTIN

Autore: Emiliano Bonatti


Il caso Snowden non poteva scivolare nell'oblio senza lasciare solchi profondi nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia. L'asilo garantito da Putin alla gola profonda che ha svelato al mondo le attività di controllo globale messe in campo dalla National Security Agency è stato un evidente smacco alla dirigenza statunitense. Un'offesa da lavare con qualche gesto importante, sopratutto dal punto di vista diplomatico-mediatico, che garantisse ad Obama una boccata d'ossigeno rispetto alle critiche ricevute in patria dai "falchi" che ritengono inconcepibile la fuga di un soggetto che "mette a repentaglio la sicurezza nazionale" (sappiamo benissimo quanto sia importante negli Stati Uniti la retorica della Sicurezza Nazionale, sull'altare della quale, secondo alcuni, qualsiasi libertà individuale può essere sacrificata).


Ed ecco, dunque, che il necessario gesto arriva puntuale nel pomeriggio di ieri. Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, annuncia che: "following a careful review begun in July, we have reached the conclusion that there is not enough recent progress in our bilateral agenda with Russia to hold a U.S.-Russia summit in early September". Il governo russo esprime "disappunto" per la cancellazione dell'incontro, ma si dice disponibile a nuovi contatti bilaterali da tenere prima del previsto G-20 del 5-6 settembre a San Pietroburgo. Difficilmente, però, Obama arretrerà dalla propria posizione a dimostrazione del fatto che l'affare Snowden è in realtà la punta dell'iceberg di una congiuntura diplomatica alquanto tesa. La stagnazione degli accordi commerciali, l'irrigidimento di Putin sui diritti civili ma, soprattutto, la posizione della Russia a difesa del regime di Assad in Siria, che di fatto blocca ogni possibilità di dar vita ad un'azione internazionale che abbia l'avallo legittimante dell'Onu, sono i punti controversi che stanno portando le relazioni tra i due paesi ai minimi storici degli ultimi 20 anni.

Obama ha dato atto della collaboriazione russa in alcuni frangenti, come nelle attività di contro-terrorismo seguite agli attentati di Boston e a quelle nel teatro afgano. Ha però allo stesso tempo affondato il colpo sostenendo, in riferimento alle azioni russe, come in alcuni frangenti "they slip back into Cold War thinking and Cold War mentality".  Un'affermazione non certo leggera che ha ottenuto, così come la decisione di annullare il summit, lo scontato sostegno del Partito Democratico ma anche l'insperato sostegno di diversi esponenti Repubblicani che avevano pesantemente criticato la gestione "passiva" dei rapporti con la Russia.

La Casa Bianca ha reso noto che gli incontri previsti per il prossimo venerdì tra il Segretario alla Difesa Hagel e il Segretario di Stato Kerry con i colleghi russi andranno avanti come previsto. Resterà da valutare, nelle prossime settimane, quale sarà il percorso che i protagonisti decideranno di seguire. Da un lato Putin manterrà tutto l'interesse a dimostrare al mondo la propria capacità di non piegarsi alle pressioni americane, in ogni campo, per proporsi quale capo-fila dei paesi che non vogliono allinearsi alla loro sfera d'influenza. Dall'altro gli Stati Uniti che, da sempre, mal digeriscono l'idea di ricevere un "No" durante le proprie azioni di politica internazionale. Il senatore democratico Charles Schumer ha sostenuto la decisione di Obama, aggiungendo che: "President Putin is acting like a school-yard bully and doesn't deserve the respect a bilateral summit would have accorded him".

Possiamo tranquillamente sostenere che, nel ruolo di "bullo", Putin sia senz'altro in ottima compagnia...

lunedì 5 agosto 2013

LA RIPRESA DEI COLLOQUI DI PACE ISRAELO-PALESTINESI: TANTO RUMORE PER NULLA?

Autore: Angelo Paulon



Tonnellate di inchiostro sui giornali di tutto il mondo e migliaia di pagine web:  la ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi ha avuto grande risalto sulla stampa mondiale. Quasi tutti i media hanno dato ampio spazio al primo round di colloqui, tenutisi il 30 luglio a Washington, tra il Ministro della Giustizia d’Israele, la signora Tzipi Livni, e il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat. D’altra parte, pochi argomenti catalizzano l’attenzione e l’interesse della comunità internazionale come il conflitto arabo-israeliano, nelle sue ampie e variegate sfaccettature.
Come sempre in occasione di avvenimenti così impattanti sull’opinione pubblica, però, possiamo cercare più chiavi di lettura. Desideriamo soffermarci essenzialmente su due aspetti: 1) perché i colloqui sono ripresi proprio ora, e solo ora? 2) questi incontri, il primo dei quali la stessa Livni ha peraltro definito “incoraggiante”, porteranno a qualche risultato concreto?

Andiamo con ordine. Come mai, dunque, il Segretario di Stato John Kerry (nella foto assieme a Livni ed Erekat) si è adoperato così fortemente per portare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative proprio adesso? La Siria è dilaniata da una sanguinosissima guerra civile, le cui conseguenze si propagano al Libano, la solita polveriera etnica e confessionale. L’Egitto pare al collasso, mentre la Turchia vive un momento di notevole instabilità interna. In Giordania, lo scorso giugno sono scoppiate delle rivolte tribali a Ma’an, il più grande governatorato del paese; filmati apparsi su Youtube (dei quali poco è trapelato sui media) mostrano truculenti scontri a fuoco tra l’esercito giordano ed esponenti delle tribù del sud. In tutto questo disordine, la situazione in Israele e nei territori palestinesi parrebbe paradossalmente una delle meno turbolente della regione. E allora, perché investire così tanti sforzi per far riprendere le complicatissime trattative tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese proprio in questo momento?
La diplomazia USA, che a inizio 2012 ha adottato nuove linee strategiche volte a privilegiare l’area Asia-Pacifico (“Pivot to Asia”), si trova nell’ultimo periodo a fronteggiare una serie di situazioni assai spinose. È sotto gli occhi di tutti che le relazioni con la Russia sono ai minimi storici dopo la dissoluzione dell’URSS; la concessione dell’asilo temporaneo a Snowden da parte di Mosca ha esacerbato ancor più i rapporti. Soprattutto, gli americani stanno ancora facendo una gran fatica a decodificare gli esiti delle “primavere arabe”, inquadrare i loro attori e comprendere un Medio Oriente dilaniato da conflitti settari e da una miseria economica crescente. Non a caso, finora Obama si è ben guardato dall’intervenire direttamente in Siria, così come in Libia gli USA hanno lasciato la luce della ribalta ai francesi e agli altri europei, rimanendo in seconda-terza fila.
Probabilmente, proprio il fatto che l’equilibrio in Medio Oriente negli ultimi tre anni si è letteralmente disintegrato rende necessario un riposizionamento della politica estera statunitense. Serviva dunque un “colpaccio” diplomatico, capace di rilanciare gli USA come mediatori e attori principali delle relazioni internazionali. Quale issue migliore del sessantennale conflitto arabo-israeliano, quindi, per riaffermare il proprio ruolo?
Al tempo stesso, i colloqui portano acqua anche al mulino delle due parti in conflitto. Israele già da qualche anno pone molta più attenzione alle relazioni esterne, cercando di migliorare la propria immagine,  compromessa da decenni in cui lo stato ebraico ha privilegiato la propria sicurezza senza preoccuparsi troppo dell’impatto fortemente negativo che le sue azioni militari e alcune delle sue politiche (la barriera difensiva, gli omicidi mirati, gli insediamenti di coloni a Gerusalemme Est e in altre aree, …) hanno avuto sulla comunità internazionale. La partecipazione ai negoziati è funzionale a un desiderio dell’opinione pubblica dello stato ebraico, ovvero normalizzare i rapporti con una comunità internazionale in gran parte contraria all’“occupazione” israeliana.
L’ANP, dal canto suo, si trova in una condizione ben più complessa. Al contrario di Israele, dove al di là del normale dibattito politico democratico si registra un sostanziale, sebbene non unanime appoggio dei cittadini alle istanze portate avanti in tema dal Governo, l’ANP deve fronteggiare una situazione interna drammaticamente frammentata dal punto di vista politico (Abu Mazen non ha nessun controllo su Gaza e anche in Cisgiordania è un presidente “in prorogatio”, visto che il suo mandato è scaduto nel 2009 e da allora non si sono mai più tenute elezioni a causa della spaccatura tra Hamas e ANP), e devastante da quello economico, sociale (basti pensare alla disoccupazione al 27%, a Gaza al 32%) e demografico. Abu Mazen, quindi, non può permettersi di irritare troppo gli USA, i quali contribuiscono in maniera determinante alla sopravvivenza delle istituzioni palestinesi (o della loro parvenza) con i loro finanziamenti. In maggio, al Forum economico Mondiale tenutosi in Giordania, Kerry ha annunciato un nuovo piano di aiuti all’economia palestinese di non meno di 4 miliardi di dollari. Ecco allora che l’ANP ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, spedendo Erekat ai colloqui di Washington.

Ma sotto la superficie della (fittizia?) volontà di giungere realmente a qualche accordo brucia la cenere di difficoltà al momento insormontabili. Ricordiamone brevemente qualcuna.
Israele non potrà mai accettare alcune tra le condizioni che i palestinesi considerano essenziali per il raggiungimento di un accordo di pace (una tra tutte, il “diritto al ritorno” in Israele dei profughi e dei loro discendenti: milioni di persone che rovescerebbero completamente il rapporto demografico tra cittadini israeliani ebrei e non ebrei). Peraltro, la storia anche recentissima insegna come Israele non abbia mai esitato troppo a porre in essere azioni anche clamorose e rischiose, se considerate necessarie per garantire la propria sicurezza. Ultima tra esse, il 5 luglio scorso, un attacco dal mare ad opera di un sottomarino della classe Dolphin della marina militare israeliana. Secondo il Sunday Times, un missile da crociera avrebbe distrutto un deposito militare siriano a Latakia. Il deposito ospitava, tra l’altro, una cinquantina di missili anti-nave Yakhont P-800 di fabbricazione russa, consegnati quest’anno alle forze armate di Damasco. Tali armi avrebbero potuto permettere a Hezbollah di minacciare direttamente gli impianti israeliani offshore di estrazione del gas naturale del Mediterraneo. Non si vede, dunque, come Israele da un lato agisca con tutti i mezzi a disposizione per difendersi e prevenire attacchi al suo territorio, e dall’altro possa acconsentire a tavolino a soluzioni che impedirebbero di preservare il carattere ebraico e democratico dello stato, equivalendo a un suicidio.
Abu Mazen, dal canto suo, non potrà mai accettare alcune delle condizioni che Netanyahu potrebbe eventualmente offrirgli (uno Stato demilitarizzato, con il controllo israeliano sul Muro Occidentale e una presenza militare israeliana sul fiume Giordano) senza essere accusato, nella migliore delle ipotesi, di tradimento della causa.
Inoltre, il fronte palestinese manca completamente di unità in relazione al processo di pace. Non solo Hamas, ma anche molte formazioni politiche “pragmatiche” disapprovano il rinnovo delle trattative con Israele: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (Fdlp), l’Iniziativa Nazionale Palestinese di Mustafa Barghouti, il Partito del Popolo Palestinese (comunisti). Persino all'interno della sua stessa fazione Fatah, Abu Mazen non ha trovato sostegno! Si può quindi tranquillamente affermare che, in questo momento, è l’intransigenza della leadership politica palestinese, ostinatamente contraria a qualsiasi negoziato, a costituire un ostacolo alla pace semplicemente insormontabile.
Infine, non va dimenticato il più ampio scenario del mondo arabo-islamico nel suo complesso. Manca completamente una posizione comune a supporto del processo politico e negoziale. Anzi, si assiste con cadenza regolare a un susseguirsi di prese di posizione particolarmente cruente nei confronti di Israele (l’ultima in ordine di tempo, l’affermazione del neoeletto Presidente iraniano Rohani, che prima ancora di insediarsi ufficialmente ha già sentenziato che Israele è un corpo estraneo nella regione del Medio Oriente, che deve quindi essere sradicato). Un gioco al rialzo che ha probabilmente come scopo principale quello di presentarsi ai musulmani di tutto il mondo come i campioni a supporto della resistenza palestinese contro il regime sionista (lo fece anche Saddam Hussein nel 1991 durante la Guerra del Golfo, non a parole ma lanciando gli Scud su Tel Aviv) ma che nei fatti non contribuisce di certo a gettare le basi per una soluzione pacifica del conflitto. E l’esito di sessant’anni di propaganda bellicosa e di conflitti armati è uno solo: la maggior parte dell’opinione pubblica del mondo arabo-islamico non sembra affatto desiderare la convivenza tra palestinesi ed ebrei nella medesima regione, né la coesistenza pacifica di due stati indipendenti e sovrani, quanto la cancellazione tout court di Israele.

Tutte queste cose, gli americani le sanno perfettamente. È dunque evidente che, in siffatta situazione, non è realistico aspettarsi risultati clamorosi a breve termine. Gli stessi USA hanno invitato israeliani e palestinesi a dar vita a una nuova “road map” del processo di pace che dovrebbe portare a incontri e negoziati almeno per i prossimi nove mesi. Nel migliore dei casi, si addiverrà a qualche accordo su questioni secondarie o qualche dichiarazione di intenti da dare in pasto all’opinione pubblica mondiale.
Non si è forse troppo lontani dal vero, allora, se si sostiene che i grandi sforzi volti alla ripresa dei colloqui e l’enfasi con la quale essa è stata sottolineata rispondono prima di tutto a un’esigenza di Public Relations, quasi propagandistica. Ognuna delle tre parti ha bisogno di comunicare qualcosa alle proprie audience di riferimento: un’immagine positiva, propositiva, costruttiva agli alleati e al “pubblico neutrale”; un messaggio di inflessibilità, credibilità, fermezza e forza rivolto alle rispettive popolazioni e, soprattutto, ai propri nemici. Il tutto, al fine di adeguare il proprio posizionamento sul mutante scenario mediorientale e trovare una collocazione politico-diplomatica dalla quale perseguire con più efficacia i propri interessi fondamentali.