"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

venerdì 31 ottobre 2014

SALE LA TENSIONE TRA SVEZIA E ISRAELE DOPO IL RICONOSCIMENTO DELLO STATO PALESTINESE

Autore: Emiliano Bonatti


Pesanti nubi si addensano sui rapporti diplomatici tra Svezia e Israele, a seguito della decisone del governo di Stoccolma di riconoscere ufficialmente lo Stato Palestinese. Fonti di stampa israeliane riportano la decisione di Tel Aviv di richiamare in patria il proprio ambasciatore per “consultazioni” circa la delicata questione, mentre già ad inizio di ottobre il Ministro degli Esteri israeliano Lieberman aveva convocato l’ambasciatore svedese per esporre il disagio del proprio governo verso le posizioni scandinave.

La Svezia è di fatto il primo grande paese europeo a riconoscere lo Stato Palestinese (altri come Malta e Ungheria avevano riconosciuto lo Stato prima di entrare nell’Unione Europea) e, secondo il Ministro degli Esteri Margot Wallstrom, “there are clearly signs that this might happen in other member states as well”. Sempre secondo la Wallstrom, la speranza del governo di Stoccolma è quella di portare nuova linfa ai  colloqui di pace di fatto bloccati dallo scorso aprile a seguito della decisione israeliana di nuovi stanziamenti nei territori occupati e dal ritorno delle violenze nella striscia di Gaza. Lo stesso sotto-segretario delle Nazioni Unite, Jeffrey Feltman, in una dichiarazione del 29 ottobre sostiene come la decisione di Tel Aviv di nuovi insediamenti ad est di Gerusalemme, se implementata, aumenta i dubbi circa il reale impegno di Israele verso la pace. E’ di calibro pesante, ovviamente, la reazione delle autorità israeliane. Lieberman definisce quella svedese una “pessima decisione”, sostenendo che il governo scandinavo “should understand that Middle-East relations are more complex than a piece of self-assembled Ikea furniture”.
Battuta simpatica che nasconde una verità assoluta, legata alla complessità di un conflitto che da decenni non trova possibilità di soluzione. Gli Stati Uniti hanno più volte espresso la propria posizione sostenendo come il riconoscimento dello Stato Palestinese sia “prematura” e l’Unione Europea, come da prassi incapace di avere una linea comune in politica estera, si muove in ordine sparso: si passa dalla Svezia che sostiene ci siano altri paesi pronti al passo, ad indiscrezioni che raccontano di paesi più vicini alle posizioni israeliane fortemente irritati per la scelta.


Ad oggi sono 135 le nazioni del mondo ad aver riconosciuto la Palestina come Stato indipendente e la stessa Assemblea delle Nazioni Unite, con la Risoluzione n.67/19 del 29 novembre 2012 ha concesso allo Stato Palestinese lo status di “non-member observer State”, riconoscendolo di fatto come autorità autonoma rappresentante il popolo palestinese.


martedì 28 ottobre 2014

KURDISTAN INDIPENDENTE = STABILITA' IN MEDIO ORIENTE?

Autore: Angelo Paulon



Un popolo che da oltre un secolo si batte per vedere riconosciuto il diritto ad avere un proprio Stato. Circa 35 milioni di persone che, suddivise tra Iran, Iraq, Siria e soprattutto Turchia, aspirano all’indipendenza nazionale, negata loro dai governi degli Stati che li ospitano, che (con il tacito accordo delle grandi potenze, USA in primis) sovente hanno adottato politiche repressive e di discriminazione razziale volte addirittura a negare del tutto l’identità e l’esistenza stessa di un popolo. Con tutti i mezzi a propria disposizione: mass media, forze armate, istituzioni culturali e scolastiche, torture, reclusione.
Eppure oggi, come forse mai prima d’ora, il tema del Kurdistan indipendente è di estrema attualità. Anzi, si potrebbe affermare che, in Medio Oriente, l’emergere de facto di un’entità politica curda è uno degli sviluppi più importanti e potenzialmente ricchi di interesse. Certamente il ruolo svolto dai combattenti peshmerga sul terreno, a Mosul come a Kobane, per contrastare l’avanzata dell’IS in Iraq e in Siria contribuisce a mantenere alta l’attenzione sulla questione curda. Non è però questo il tema che trattiamo qui, sebbene sia innegabile che l’ondata di simpatia e di interesse per i curdi sia destinata inevitabilmente a scemare nel momento in cui lo Stato Islamico venisse sconfitto o si verificasse qualche altro scenario di crisi internazionale in grado di soppiantare, almeno sui media, le aberranti azioni del Califfato.

Cercando di ampliare l’orizzonte del ragionamento, si potrebbe realmente pensare alla nascita di un Kurdistan indipendente e riconosciuto all’interno del consesso delle Nazioni Unite? È ovvio che una simile idea non viene neppure concepita dalla Turchia, né dai governi degli altri Stati che ospitano sul loro territorio ampie minoranze di popolazione curda. Questi paesi si opporrebbero con grande forza a tale ipotesi. Ed è altrettanto lampante che si tratterebbe di uno sconvolgimento geopolitico di portata enorme; molto maggiore, ad esempio, della nascita di uno Stato palestinese accanto a Israele.
Sconvolgimento che avrebbe conseguenze per tutti gli attori rilevanti della regione, nonché per le grandi potenze: USA, Russia, Cina dovrebbero per forza ricollocare le loro pedine sullo scacchiere, anche semplicemente considerando che l’area è una delle più ricche di petrolio del globo. È però vero che una certa forma di autogoverno i curdi ce l’hanno già. In forme, peraltro, molto diverse: il Kurdistan iracheno gode di autonomia politica già dalla fine del regime di Saddam Hussein; i curdi siriani devono invece la loro autonomia di fatto essenzialmente all’esplodere della guerra civile. Cosa potrebbe accadere se questa autonomia politica di fatto si trasformasse in vera sovranità politica e territoriale? Quali vantaggi potrebbero derivarne, non solo per i curdi, ma per l’intero Medio Oriente?

Uno Stato del Kurdistan che andasse dal confine Iran-Iraq alla Siria, e che magari comprendesse anche alcune aree curde attualmente facenti parte della Turchia potrebbe davvero giocare un ruolo di stabilizzatore del Medio Oriente. in particolare in Siria, una divisione del territorio che tenesse conto delle linee etnico-religiose (curdi, alawiti, sunniti) potrebbe consentire a ciascun gruppo di controllare porzioni di territorio omogenee, con confini più difendibili e maggiori probabilità di alleviare l’atroce situazione umanitaria di quel paese.Lo stesso principio, applicato all’Iraq, potrebbe dare esiti analoghi. E porre fine una volta per tutte all’obbrobrio dei confini disegnati con righello e squadra sulle carte geografiche agli inizi del XX° secolo, dagli accordi Sykes-Picot in avanti, senza tenere nel benché minimo conto la reale situazione etnica, religiosa, linguistica di quelle terre.

I vantaggi di uno stato curdo indipendente non si limiterebbero all’aspetto umanitario, ma potrebbero dipanarsi anche sul piano economico. Se ad esempio, come suggerisce Moshe Dann sul “Jerusalem Post”, si costruisse una condotta che, attraverso il Kurdistan, portasse acqua potabile dal Sud-Est della Turchia fino ai deserti disabitati della Giordania orientale e dell’Iraq occidentale, si potrebbe dar vita a un’oasi. Che garantirebbe cibo e posti di lavoro a milioni di persone, gettando le basi per lo sviluppo economico della regione e la sua stabilizzazione politica. Non solo: un Kurdistan indipendente e, magari, governato da istituzioni democratiche (anche se sappiamo bene quanta difficoltà vi sia nel tentare di riproporre modelli di forma di governo prettamente occidentali in altre aree del mondo), potrebbe diventare un baluardo contro le minacce iraniane e contenere la Russia nella regione del Mar Caspio e del Mar Nero e persino i talebani in Afghanistan, affrancando al tempo stesso l’Europa dalla sua dipendenza energetica dalla Russia. E rappresenterebbe anche una forza contro gli estremisti islamici, jihadisti, islamisti, Fratelli Musulmani. (“A strong Kurdish state will be a bulwark against Iranian threats. It will help contain Russia in the Black/Caspian Sea region and the Taliban in Afghanistan. It will release Europe from its dependence on Russian energy sources. It will be a force against Muslim extremists – jihadists, Islamists, Muslim Brothers, etc”).

Naturalmente, a questi potenziali vantaggi si potrebbe controbattere con molti, solidi argomenti a sfavore. Uno su tutti: i curdi non sono un gruppo etnico monolitico e compatto. La loro storia è storia di centinaia differenti tribù, clan e di grandi conflittualità tra essi.
E c’è anche una grande frammentazione politica: i vari partiti (dal KDP al PUK, che operano nell’Iraq del Nord, al PKK che fu di Ocalan e guidò la lotta per l’indipendenza curda in Turchia anche con il terrorismo, al PDKI dell’Iran, e altri) sono spesso ai ferri corti tra loro, e il fatto che ora facciano tutti fronte comune contro l’IS non può certo essere visto come un segnale che le tensioni siano terminate. Dunque, niente di più fuorviante che pensare ai curdi come a un’entità compatta in grado di creare uno Stato idilliaco che contribuirebbe, come per magia, a portare pace e prosperità nel Medio Oriente.

Ma è anche vero che, a volte, pensare fuori dagli schemi può aiutare a trovare soluzioni a problemi che sembrano irrisolvibili. E in questo momento non sembrano esserci poi molte altre alternative valide per stabilizzare l’area…

venerdì 24 ottobre 2014

LOTTA ALL'ISIS: E' NECESSARIO L'INVIO DI TRUPPE DI TERRA?

Autore: Emiliano Bonatti


Il Comando Centrale degli Stati Uniti di Tampa ha rilasciato nella giornata di ieri un breve comunicato in cui aggiorna la situazione dei raid aerei della coalizione, guidata dagli americani, impegnata nella lotta all’Isis nel teatro di guerra siriano e iracheno. Il report parla di diversi bombardamenti attorno a Kobane e Dawr Az Zawr (Siria) con la distruzione di veicoli, postazioni di combattimento/controllo e di siti di stoccaggio di petrolio. In Irak, invece, bombardamenti a sud di Mosul e nell’area di Falluja. Tutte le missioni, secondo il Comando, sono state portate a termine con successo e stanno permettendo di limitare pesantemente le capacità dell’Isis di portare avanti operazioni militari.


Peccato però che le fonti “ufficiose” non vedano la situazione in maniera altrettanto positiva e che non ritengano le sole operazioni aree sufficienti a debellare l’infezione dell’Isis dallo scacchiere mediorientale. La Reuters riporta un paio di interviste ad ufficiali americani che dipingono scenari a tinte fosche. Uno di loro, parlando di Kobane, città al confine tra Siria e Turchia ormai contesa da mesi, sostiene come i bombardamenti e l’invio di armi e medicinali ai curdi assediati abbiano portato ad una semplice “stabilizzazione” della situazione.Le probabilità che i miliziani islamisti riescano ad avere la meglio, però, sono ancora altissime. Un altro ufficiale segnala la necessità di tempi lunghissimi per permettere un addestramento minimo che consenta alle truppe governative, sia irachene che siriane, di tentare una contro offensiva di terra che abbia qualche possibilità di successo contro le truppe del Califfato (si parla addirittura di 12-18 mesi).
A tutto questo si aggiungono le notizie riportate dall’Institute for the study of war che nei report quasi quotidiani dei propri inviati segnala un aumento esponenziale della minaccia dell’Isis verso Baghdad, tramite il classico schema utilizzato per fiaccare le resistenze in aree di interesse: attentati, auto-bombe, colpi di mortaio. Diversi esperti sostengono che, dopo settimane di bombardamenti, sia palese l’inadeguatezza della sola opzione aerea per risolvere il problema a causa dell’adattabilità, velocità e dispersione territoriale delle milizie dell’Isis. La necessità, secondo molti, è quella dell’invio di truppe speciali americane sul terreno per dar man forte agli eserciti governativi, meglio indirizzare i raid aerei e, soprattutto, spezzare il sostegno garantito all’Isis da parte di diverse popolazioni civili e tribù locali, di fatto obbligate col terrore a supportare il movimento.



L’opzione-terra, però, non è al momento considerata da Washington e dai suoi alleati. Obama ha più volte ripetuto che non sarebbero state inviate truppe in Irak o Siria e nessuna delle nazioni che partecipa alla coalizione sarebbe minimamente intenzionata a contribuire coi propri uomini. Le opinioni pubbliche non sarebbero assolutamente pronte ad accettare un simile intervento, in quanto la minaccia dello Stato Islamico sembra a tutti ancora troppo lontana. Così lontana, però, non è. Basterebbe valutare gli ultimi episodi (in Canada ad esempio) in cui “schegge impazzite” di fanatismo provocano morti sui territori dei paesi occidentali, senza contare il fascino che l’ideologia estremista continua a riscuotere su una larga fetta delle ampie comunità musulmane, per capire che la follia non ha confini territoriali e può colpire in qualsiasi momento anche a migliaia di chilometri di distanza dai teatri di guerra.


martedì 21 ottobre 2014

ISIS: ALLAH O PETROLIO, QUAL'E' IL VERO DIO?


Autore: Emiliano Bonatti


E’ di ieri la notizia che la Turchia, dopo aver mantenuto per settimane una posizione decisamente ambigua, ha autorizzato il passaggio sul proprio territorio di combattenti curdi iracheni diretti verso Kobane in aiuto dei curdi siriani accerchiati dalle milizie dell’Isis. Questo sostegno, assieme ai rifornimenti di armi, cibo e medicinali che gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver paracadutato sulla zona, dovrebbe garantire una boccata d’ossigeno alle forze impegnate nella strenua difesa della città siriana assediata ormai da tempo. Solo nei prossimi giorni si potrà valutare se questo sia il primo passo di un reale impegno di Ankara nella lotta contro le milizie islamiste o se si tratti unicamente di un “regalino” concesso a seguito delle pressioni ricevute dagli Stati Uniti (e sotto traccia dalla Nato). La Turchia, d’altro canto, è in una posizione alquanto delicata: avamposto della Nato nel teatro di guerra con alcuni alleati militari che combattono un movimento che, a sua volta, ha combattuto un nemico storico della Turchia stessa, ovvero Assad. All’interno di questo risiko, lo storico problema curdo che fa temere ad Erdogan possibili rivendicazioni interne a seguito di un’eventuale affermazione dei peshmerga contro l’Isis.


A proposito di Isis (o Is/Isil) risulta molto interessante lo studio delle direttrici di espansione del movimento in Siria e Irak, al di là delle rivendicazioni storico/religiose sulle aree tra il Tigri e l’Eufrate, su Baghdad e Damasco considerate le capitali del Califfato.
La mappa mostra in maniera chiara come gli obiettivi primari dell’espansione dello Stato Islamico siano decisamente più economici che religiosi: giacimenti, raffinerie e linee di distribuzione del petrolio hanno attirato l’attenzione delle milizie di Al-Baghdadi molto più dei luoghi sacri. Lo stesso interesse rivolto verso le aree curde si spiega soprattutto con la ricchezza di giacimenti di quelle zone. Ed è grazie a queste “conquiste” che l’Isis risulta ad oggi l’organizzazione meglio finanziata del mondo, con una stima di più di 3 milioni di dollari incassati al giorno solo per la vendita del greggio al mercato nero.



Nulla di nuovo, del resto, sotto il sole. Le guerre nascondono da sempre preponderanti interessi economici di qualche elite di potere. Qualche volta la “maschera” è la religione, altre volte è l’ideologia, la razza, l’etnia. In questo caso la follia fondamentalista, con la sua retorica semplice e diretta supportata dai mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia, sta reclutando decine di migliaia di giovani musulmani disposti a commettere le peggiori aberrazioni nella convinzione di servire il proprio Dio senza rendersi conto, però, di servire in realtà solo qualche potente. Senza rendersi conto di ripetere lo stesso errore commesso nella storia da tanti altri “soldatini” annebbiati dalla propaganda del santone/predicatore/demagogo di turno. 


lunedì 20 ottobre 2014

NOZZE GAY: LA TRASCRIZIONE DELLA DISCORDIA...

Autore: Emiliano Bonatti


E' di forte attualità lo scontro istituzionale tra il Ministro dell'Interno Alfano e alcuni Sindaci, guidati da quello di Roma Marino, circa la trascrivibilità nei registri dello Stato Civile dei matrimoni contratti all'estero da persone dello stesso sesso. La questione andrebbe a mio avviso valutata su due piani diversi: quello formale, legato al campo di applicazione delle norme, e quello sociale, legato all'incapacità dello Stato (sopratutto quello italiano) di adeguarsi alle trasformazioni che una società, nella propria evoluzione, incontra inevitabilmente.


Dal primo punto di vista la posizione di Alfano risulta di fatto ineccepitible. Nella direttiva inviata ai Prefetti in data 7 ottobre viene ricordato, a ragione, che la materia è di competenza del legislatore nazionale (quindi il Parlamento) e che l'articolo 9 del DPR 396/2000 impone che gli Ufficiali di Stato Civile (Sindaci o loro delegati) debbano "uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell'Interno" e che "la vigilanza sugli uffici dello stato civile spettano al Prefetto". Occorre poi sottolineare come l'eventuale trascrizione di un istituto non riconosciuto da alcuna norma, non possa comunque produrre alcun effetto giuridico nell'ordinamento italiano. Per cui la battuta di Alfano che assimila la validità di quegli atti a "semplici autografi" è, per quanto poco simpatica, assolutamente fondata. Sarà eventualmente cura della Corte di Giustizia Europea, se chiamata in causa, valutare se la normativa italiana risulti in contrasto con qualche norma del diritto comunitario (in contrasto, dunque, con leggi di rango superiore). 


Per quanto riguarda invece il secondo piano di valutazione, la forzatura dei Sindaci mette a nudo per l'ennesima volta la siderale lontananza che divide la società dallo Stato, sopratutto in merito ad alcuni diritti civili. La stragrande maggioranza dei paesi europei ha legiferato da anni sul riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e delle unioni tra persone dello stesso sesso. L'Italia ha sprecato lustri a discutere di strampalati progetti e a subire i veti delle forze politiche di stampo cattolico le quali, molto impegnate a seguire il termometro delle posizioni delle alte sfere vaticane (si spera in questo senso che l'ondata riformista di papa Francesco inizi a dare i propri frutti), paiono aver perso a loro volta il contatto con la società. Ormai tutti i sondaggi mostrano come la stragrande maggioranza degli italiani sia d'accordo quantomeno sul riconoscimento delle unioni civili sia etero che omosessuali. E la provocazione dei Sindaci, al di là del folklore forse eccessivo, serve proprio a ricordare che in un paese civile non esistono "coppie" di serie A o di serie B, catalogate in funzione del sesso dei componenti. Lo stesso Renzi, sempre molto attento alla direzione in cui tira il vento, ha già dichiarato che sarà pronta a gennaio una proposta di legge in tal senso. E se addirittura Berlusconi, che ha sempre governato in funzione dei sondaggi, sostiene che sia venuto il momento di affrontare la questione (dopo aver mantenuto per anni posizioni diametralmente opposte) significa che la società italiana sul tema ha ampiamente superato, e distanziato, la classe politica. 



Chissà se l'atto di "disobbedienza" di qualche Sindaco riuscirà ad aprire una breccia ed obbligherà un parlamento che latita da anni a garantire finalmente quei diritti di cui le coppie di fatto godono nel resto dei paesi occidentali. D'altro canto, tutti i più grandi traguardi della storia in materia di diritti civili sono nati dalla "disobbedienza" (civile o violenta che fosse) ad ordinamenti obsoleti che sembravano immutabili.....