"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

venerdì 27 settembre 2013

VIENI AVANTI CRETINO...


Autore: Emiliano Bonatti



Ogni giorno, da decenni a questa parte, abbiamo pensato che la politica italiana avesse raggiunto il punto più basso tra quelli umanamente concepibili, sperando che dal giorno seguente si potesse iniziare finalmente un percorso di recupero non della "buona politica" (utopia irraggiungibile nel belpaese), ma della semplice decenza. I fieri scudieri pidiellini sono riusciti, invece, nel complicatissimo obiettivo di abbassare ulteriormente l'asticella del limite. La penosa sceneggiata di ieri dei senatori berlusconiani che minacciano e firmano dimissioni in bianco per accompagnare il proprio leader nella battaglia contro tutto e contro tutti sono un insulto, oltre che alla decenza, ai milioni di italiani onesti chiamati ad affrontare ogni giorno una crisi che li sta mettendo in ginocchio.

Siamo al servilismo patologico di un'accozzaglia di "miracolati" disposti a tutto pur di genuflettersi al capo, ben consci che quel capo li ha creati e li distruggerà sull'altare della propria salvezza. Una mandria di servi che rovescia in maniera indegna l'interpretazione dei fondamenti normativi delle istituzioni democratiche, ad uso e consumo di una verità che deve piegarsi alle esigenze del messia, e non al governo della convivenza civile. Gridano al golpe, al conflitto istituzionale, alla persecuzione, insultando un Capo dello Stato che si permette semplicemente di fare il proprio mestiere, quello di Garante della Costituzione, solo perchè alza la voce per ricordare a tutti che in uno Stato di Diritto le sentenze della Magistratura (oltretutto declinate in ogni grado di giudizio possibile) semplicemente "si rispettano". La verità, appunto, nel loro starnazzare inizia a sbiadirsi fino a diventare, agli occhi dei poco preparati, l'esatto contrario di quello che è: i reali eversori si trasformano in paladini del diritto, i reali soldatini alla caccia del golpe istituzionale diventano i salvatori della Democrazia.

I "paladini della libertà" saranno disposti a bloccare il Parlamento per mesi (viste le abominevoli procedure delle Camere per accettare eventuali dimissioni e procedere alla surroga con i non-eletti) per permettere al loro capo di mantenere il cappello dell'immunità fino a data da destinarsi, visto che sul soggetto che grida alla persecuzione pendono ancora diversi processi. Tutto questo alla faccia della situazione del Paese. Tanto, cosa volete che interessi a personaggi come Brunetta, Cicchitto, o la pitonessa Santanchè se le manovre lacrime e sangue fatte finora verranno buttate nel cestino. La crisi, per i soldatini arricchiti, è una semplice brezza che sfiora la pelle. Cosa volete che cambi, per loro, un punto percentuale di Iva, un debito pubblico gonfiato dallo spread che si alza, qualche migliaio di aziende in più che chiude. La priorità, ad oggi, è salvare il padrone, facendo a gara per dimostrare chi è il più agguerrito della banda.

Speriamo che il Pd agisca finalmente da partito dotato di spina dorsale rispondendo a muso duro alle minacce che da settimane logorano il Governo di Enrico Letta. Se vorrà fermare l'emorragia da disaffezione dei propri militanti, che alla luce degli ultimi sviluppi comprendono sempre meno la necessità e il senso del governare assieme a certi figuri, il Partito Democratico dovrà arrivare al punto, se necessario, di buttare a mare le larghe intese. Chiedere dunque una verifica di Governo immediata e fiducia da portare in Parlamento per far scoprire definitivamente le carte a Berlusconi e ai suoi. Se il Pdl (o è già Forza Italia? a che punto sono?) staccherà la spina all'esecutivo se ne assumerà le responsabilità e starà al Pd stesso tentare di dar vita ad un mini-governo di scopo (con durata e obiettivi definiti) con il Movimento 5 Stelle il quale dovrà essere chiamato, finalmente, ad un gesto di responsabilità che viene chiesto a gran voce anche da una parte del proprio elettorato. Se l'intransigenza resterà allora che si torni al voto., nulla è peggio di questo continuo stillicidio ad-personam.

A quel punto, però, l'appello andrà rivolto agli italiani. O almeno a quegli italiani che ancora non si sono resi conto dell'abbraccio mortale al quale Berlusconi ha legato l'Italia. A chi ancora non si rende conto dei danni della politica legata al mito di un leader. A quelli che non si sono ancora resi conto che non regge più la favoletta del bello, bravo e onesto che lotta contro gli altri, semplicemente mossi dalla gelosia. A chi non si rende conto che gli "altri" non sono gelosi, ma semplici cittadini onesti che non sopportano l'arroganza e il tentativo continuo di elevare un singolo al di sopra di tutti. Che non sopportano l'idea che la disonestà diventi il modello di costruzione di una società. E se anche queste ultime vicende non riusciranno ad aprire gli occhi dei cittadini, credo che per l'Italia ci siano ben poche speranze.

E allora ci ritroveremo nuovamente con la fila dei servetti e con il capo che urla: "....vieni avanti cretino... tocca a te firmare!"




sabato 21 settembre 2013

DOMESTIC TROUBLES

Autore: Emiliano Bonatti



Il sito statunitense del Guardian, nell'edizione di ieri, riporta una news alquanto agghiacciante: nel gennaio del 1961 gli Stati Uniti sono stati vicinissimi all'auto-infliggersi un attacco nucleare di immane portata. La notizia non regala certo novità nel novero dei potenziali incidenti, veri o presunti, di cui è ricca la storia della Guerra Fredda. Questa volta, però, il report proviene da documenti ufficiali, finalmente "declassified", raccolti dal giornalista Eric Schlosser durante la preparazione del suo libro Command and Control, dedicato alla corsa agli armamenti nucleari.

Il 23 gennaio del 1961 un bombardiere B-52, partito dalla base dell'Us Air Force di Goldsboro (Nord Carolina) per un volo di routine, perde a causa di un improvviso cedimento strutturale il proprio carico di 2 bombe all'idrogeno classe "Mark 39" dal potere esplosivo di 4 megatoni. Un simile potenziale avrebbe portato ad un "fallout" radioattivo tale da coinvolgere diverse tra le principali città dell'est degli Stati Uniti come Washington, Baltimora, Filadelfia e New York.  Una delle due bombe cadde in un campo vicino alla località di Faro, senza però toccare terra a causa del paracadute impigliato nei rami di un albero. La seconda bomba, invece, arrivò in un prato non molto lontano dal luogo di caduta della prima. Il meccanismo di innesco della bomba aveva già iniziato il proprio percorso e solo grazie al funzionamento di un piccolo sistema di controllo a basso voltaggio è stato evitato il disastro. Il problema, secondo alcuni esperti, è che solo uno dei 4 meccanismi di sicurezza deputati ad evitare esplosioni involontarie ha funzionato correttamente lasciando seri dubbi su quanto sostenuto dalle autorità americane in quegli anni circa l'assoluta sicurezza per i propri cittadini rispetto all'arsenale nucleare a disposizione del Pentagono.

Le polemiche si stanno ovviamente concentrando sulla questione specifica, con lo scontro tra i sostenitori della tesi dei rischi catastrofici a cui sono stati sottoposti i cittadini americani e chi invece sostiene che i meccanismi di lancio e di innesco delle bombe nucleari fossero talmente complessi da poter escludere con certezza ogni rischio per la popolazione all'interno dei confini degli States. Il sottoscritto non ha, ovviamente, la preparazione tecnica adatta per sposare una delle due tesi. E' però abbastanza ironico rendersi conto che il popolo statunitense, terrorizzato in quegli anni da possibili invasioni o lanci di testate atomiche russe, angosciato nell'ottobre dell'anno successivo da uno degli episodi di maggior tensione di tutta la Guerra Fredda (la crisi dei missili a Cuba - 1962), non si rendesse conto che i rischi maggiori per la propria sicurezza provenissero da eventuali incidenti "domestici".

L'equilibrio di potenza, al di là dei ciclici picchi di tensione, garantiva una situazione per cui nessuno dei capi di Stato delle due parti sarebbe mai stato così folle da premere un grilletto che avrebbe portato alla distruzione del globo. Gli eventi, dunque, erano tendenzialmente controllabili tramite la diplomazia o l'esibizione della forza potenziale da mettere in campo. 

Un "incidente", invece, sarebbe stato decisamente meno controllabile...    


venerdì 6 settembre 2013

CAMBIO DELLA GUARDIA A CANBERRA, SENZA SCOSSONI IN POLITICA ESTERA

Autore: Angelo Paulon


Mentre in Europa si attende con crescente interesse il 22 settembre, data delle elezioni in Germania, agli antipodi il giorno del giudizio popolare è ormai alle porte. Sabato 7 settembre, infatti, gli australiani si recheranno alle urne per scegliere il prossimo Primo Ministro. I principali contendenti sono il premier uscente, il laburista Kevin Rudd, e il leader dell’opposizione e del Liberal Party, Tony Abbott. Tutti i sondaggi danno per molto probabile il cambio al vertice a Canberra: la Coalizione dei conservatori guidata dai liberali è data al 53-54%, con un margine di 7-8 punti percentuali sul Labor. Ciò significherebbe, stando alle proiezioni, aggiudicarsi circa 90 dei 150 seggi della House of Representatives: un’ampia maggioranza. Sui laburisti pesa sicuramente come un macigno la guerra fratricida interna al partito: Rudd è ridiventato premier nel giugno di quest’anno, dopo che una resa dei conti in seno al Labor ha di fatto sfiduciato l’allora Primo Ministro Julia Gillard. La quale, a sua volta, divenne leader del partito e premier nel 2010, allorquando il Labor riservò medesimo trattamento a Rudd.

Gli elettori hanno dato segno di non apprezzare affatto questa faida tra i laburisti, che ha portato per la seconda volta in pochi anni alla premiership un leader non passando per la via maestra delle elezioni (cosa che, nel mondo anglosassone, è poco apprezzata). Nemmeno alcune gaffe dell’ultimo minuto, come una discussa intervista rilasciata da Abbott all’Australian Broadcasting Corporation il 2 settembre e finita sotto il fuoco di fila delle critiche a causa di alcune osservazioni piuttosto superficiali in politica estera (Abbott ha descritto la guerra civile in Siria come un conflitto di “baddies versus baddies”, cattivi contro cattivi, offrendo il fianco a Rudd che ha avuto gioco facile a invitare gli australiani a non votare per chi non pare essere in grado di giudicare su questioni complesse quali guerra e pace o la sicurezza nazionale), sembrano poter influenzare il risultato del voto. Quindi, a meno di clamorosi colpi di scena, Canberra si appresta ad avere un nuovo Primo Ministro e una nuova maggioranza.

Quali effetti avrà questo cambio al vertice sulla politica estera australiana? Prevedibilmente, non molti, dato che in materia di Foreign Policy si registra una sostanziale convergenza di fondo (anche se, naturalmente, con alcuni distinguo) tra liberali e laburisti. Prova ne sia che gli argomenti chiave sui quali i contendenti si sono affrontati in campagna elettorale sono stati di tipo economico (lo scontro è stato forte sul contenimento della spesa pubblica, sulla carbon tax e sulla tassa di estrazione mineraria. Abbott ha addirittura definito le elezioni come un referendum sulla carbon tax, che i conservatori vogliono abolire), sociale (tema  molto dibattuto è stato quello del salario garantito per le donne in congedo di maternità) o hanno riguardato una issue molto sentita com’è quella dell’immigrazione clandestina e dei richiedenti asilo. Anche su questo tema, peraltro, vanno sottolineate posizioni non troppo dissimili. Se i liberali hanno assicurato di fermare le imbarcazioni di disperati che arrivano dall’Indonesia, utilizzando se necessario anche la Marina Militare per impedire l’ingresso dei barconi nelle acque territoriali australiane, i laburisti hanno comunque promesso un’inversione di tendenza. Durante il suo primo mandato da premier dal 2007 al 2010 Rudd aveva incrementato le quote di immigrazione consentite, in particolare dai paesi asiatici; in campagna elettorale ha invece annunciato che i clandestini in arrivo via nave saranno inviati nei centri di prima accoglienza appositamente allestiti nelle vicine nazioni insulari del Pacifico (in primis Papua Nuova Guinea e Nauru), con nessuna chance di entrare in Australia. Una mossa che, evidentemente dettata dalla necessità di attrarre il voto degli elettori sensibili a questo tema, ha d’altra parte insoddisfatto numerosi gruppi e organizzazioni che tutelano i diritti umani dei richiedenti asilo.

Kevin Rudd è, sul piano personale, senz’altro più ferrato e ha maggiore esperienza di Tony Abbott in materia di politica estera. Parla fluentemente il mandarino e abbraccia, come tutto il Labor, una visione multilaterale delle relazioni internazionali. Uno dei recenti maggiori successi dell’Australia in politica estera è stato l’essersi garantita un seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Mossa, però, non supportata né particolarmente apprezzata dai liberali. Tanto che Abbott ha fatto sapere che, se eletto, potrebbe anche non partecipare alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine settembre, qualora esigenze di politica interna lo richiedessero. E in effetti il focus dei conservatori pare essere molto pragmatico e votato a una maggiore corrispondenza tra relazioni bilaterali e accordi di libero scambio. Julie Bishop, probabile Ministro degli Esteri in un eventuale gabinetto a guida liberale, ha dichiarato che per la coalizione conservatrice "foreign policy will be trade policy; trade policy will be foreign policy". Abbott ha affermato che, in caso di vittoria, il suo primo viaggio all’estero sarà in Indonesia, da lui definita, in virtù delle sue dimensioni, della vicinanza geografica e del suo potenziale in via di sviluppo, come “nel complesso il paese più importante per l’Australia” (dal punto di vista geopolitico, l’Indonesia costituisce infatti una barriera difensiva naturale per l’Australia sia nella dimensione marittima, che in quella aerea. Non a caso, il Trattato di Lombok del 2006 sancisce una forte collaborazione tra i due paesi per quanto concerne difesa, intelligence e antiterrorismo. Potrebbe semmai stupire lo scarso ruolo dell’Indonesia quale partner commerciale australiano: è solo al tredicesimo posto nell’apposita classifica). Successivamente, Abbott vorrebbe recarsi in Cina, Giappone e Corea del Sud e soltanto in seguito a Washington o Londra.

Ma al di là delle ovvie schermaglie da campagna elettorale, le posizioni delle due coalizioni sono, in politica estera, piuttosto vicine. E d’altra parte alcuni fatti sono evidenti di per se stessi: chiunque vinca le elezioni, si troverà a dover gestire la politica estera e di sicurezza dell’Australia in un ambiente geopolitico ed economico che gli sviluppi recenti hanno reso più complesso e difficoltoso rispetto al passato. L’apparentemente inarrestabile ascesa, non solo economica, della Cina ha fatto sì che già dal 2009 il gigante asiatico sia il primo partner commerciale dell’Australia, con scambi che superano abbondantemente i 100 miliardi di dollari l’anno. Grazie al ruolo di principale fornitore di materie prime quali minerali ferrosi, carbone, petrolio e lana grezza, l’Australia ha tratto grande giovamento dallo sviluppo industriale di Cina e India. E ciò le ha consentito di assurgere allo status di attore primario nella regione del Pacifico. E che l’Australia guardi con sempre maggiore interesse all’Asia come al proprio ambiente geopolitico di riferimento è espressamente testimoniato dal Libro Bianco, pubblicato nell’ottobre del 2012 e finalizzato a porre le basi della crescita socio-economica del paese sino al 2025. In tale documento è stata apertamente manifestata la volontà di investire nei legami commerciali, culturali e diplomatici con tutti i partner asiatici dell’Australia, nella prospettiva di permettere al paese di sfruttare appieno le possibilità offerte dal “secolo asiatico”. E come dar torto agli australiani, considerando che l’Asia è di gran lunga il continente col quale il paese dei canguri ha il più importante interscambio commerciale? Il totale di esportazioni e importazioni da e per l’Australia vede infatti il continente asiatico nella sua globalità primeggiare, nel 2012, con la cifra di 393 miliardi di dollari, +7,5% rispetto al 2008 (per fare un confronto, quattro volte tanto rispetto all’Europa, che si attesta a 96 miliardi). Di questi quasi 400 miliardi di dollari, 130 riguardano gli scambi con la Cina, 74 con il Giappone, 33 con la Corea del Sud e 27 con Singapore, rispettivamente primo, secondo, quarto e quinto partner commerciale dell’Australia. Gli USA sono il secondo partner, con 58 miliardi di dollari di interscambio; dunque, a enorme distanza dalla Cina. 

L’apertura alla Cina, fortemente caldeggiata da Rudd già quand’era Ministro degli Esteri prima di diventare premier, si è concretizzata anche sul piano diplomatico attraverso l’uscita australiana, nel 2007, dalla cosiddetta Iniziativa Quadrilaterale. Condivisa con Giappone, India e USA, essa puntava a riorganizzare il sistema di alleanze tra potenze nell’area Asia-Pacifico, in funzione (neanche troppo implicitamente) di contenimento della potenza cinese.

Chiunque vinca le elezioni del 7 settembre, per l’Australia si apre (o meglio, si è già aperta nei fatti) una stagione molto impegnativa. Da un lato, la Cina è ormai di gran lunga il principale partner commerciale del paese, e promette di esserlo per molti anni ancora. Dall’altro, si tratta di uno dei principali competitors del proprio più grande alleato strategico, gli Stati Uniti. Che di certo non ignorano le implicazioni geopolitiche della vicinanza sino-australiana. Secondo Michael Fullilove del Lowy Institute, una think-tank indipendente con sede a Sydney, questa situazione porta con sé enormi sfide (“This will pose immense challenges in the future”) per la classe dirigente di Canberra. Sia tra i laburisti che tra le fila del partito liberale non manca la fiducia: molti sono convinti che per l’Australia sia possibile bilanciare la tradizionale relazione strategica e militare con gli USA con la necessità di non rinunciare al traino della Cina e allo sviluppo economico a questo connesso. Va rimarcato, infatti, come l’Australia sia stato l’unico paese occidentale a non risentire della crisi economica internazionale; anzi, la sua crescita prosegue costantemente. Secondo alcuni analisti, invece, l’Australia si trova a un bivio. Gabriele Abbondanza, esperto italo-australiano di geopolitica e autore di ““La geopolitica dell’Australia nel nuovo millennio” sostiene in un recente articolo su notiziegeopolitiche.net che l’alternativa è tra “la possibilità di dare una svolta ai rapporti con gli Stati Uniti, con uno sforzo per continuare ad essere l’interlocutore principale di USA e Nazioni Unite nel sud-est asiatico” e “la possibilità di completare lo spostamento dell’asse economico […] verso l’Asia, unendo un progetto di avvicinamento politico che potrebbe portare […] alla costituzione di una grande area di paesi con trattati di libero scambio e rapporti politici privilegiati”. Dunque, sembrerebbe non esistere una terza alternativa alle due sfere d’influenza: “Quello che […] è certo, è che l’Australia è vicina al momento in cui dovrà decidere da che parte sta il suo futuro”.

Vi è comunque un punto fermo da non sottovalutare. L’Australia, nonostante l’avvicinamento alla Cina e l’uscita dall’Iniziativa Quadrilaterale, non ha comunque raffreddato i suoi rapporti con gli USA. Dai quali, dopotutto, né i laburisti né tantomeno i conservatori hanno alcun interesse eccessivo a distanziarsi, data la natura del legame tra i due paesi. Strategicamente e in materia di difesa e sicurezza, l’Australia dipende in maniera sostanziale dagli Stati Uniti, suoi principali fornitori di armamenti e assistenza militare. A partire dal 2000, gli USA hanno fornito oltre il 53% del totale degli armamenti acquistati dagli “aussie”; nell’anno 2012, la percentuale è stata addirittura del 71% (dati SIPRI). Inoltre, gli americani sono fisicamente presenti sul territorio australiano tramite un contingente di marines a Darwin, nel Northern Territory. Contingente che incrementerà dagli attuali 250 soldati per arrivare a 1.000 unità entro il 2014, e a 2.200 uomini a pieno regime nel prossimo futuro. E, soprattutto, non può essere dimenticato che il rafforzamento della partnership con gli USA si colloca in maniera perfettamente coerente all’interno delle nuove linee strategiche volte all’intensificazione della presenza americana nell’area del Pacifico (il famoso “Pivot to Asia” di Obama del 2012).

L’Australia ha previsto un importante sviluppo della propria forza bellica nei prossimi anni, sia orientato in senso difensivo, sia finalizzato a incrementare le proprie capacità di condurre operazioni lontano dalla madrepatria. Il Libro Bianco per la difesa del 2009 “Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030” prevede investimenti fino al 2030 per l’acquisto, tra gli altri, di aerei da guerra e missili a lunga gittata, la formazione di forze speciali, il miglioramento quantitativo e qualitativo dell’equipaggiamento. Le spese militari per la Marina, l’Esercito, l’Aeronautica e l’intelligence aumenteranno di più di 5,4 miliardi di dollari solo tra quest’anno e il 2016. Il governo di Canberra ha stimato che, per finanziare un programma così ambizioso, spenderà il 3% del PIL fino al 2017, per poi attestarsi al 2,2% fino al 2030. Questo rafforzamento della potenza militare australiana va letto in chiave strategica: le tensioni tra le maggiori potenze dell’area potrebbero radicalizzarsi in un futuro non troppo lontano e non si può escludere il rischio di un confronto diretto (il riferimento è prioritariamente, ma non esclusivamente, alla crescita della potenza militare cinese). L’interesse basilare di Canberra coincide ovviamente con la stabilità e la sicurezza dell’intera regione limitrofa: Papua Nuova Guinea, Timor Est, Vanuatu, ma soprattutto l’Indonesia. In caso di conflitti interni o dell’avvento di un regime autoritario in questo paese, infatti, la minaccia per l’Australia aumenterebbe esponenzialmente.

Il combinato disposto delle cifre di cui sopra ci fa capire come, in realtà, la vicinanza tra Australia e USA sia decisamente palese. Pochi indicatori testimoniano dell’alleanza tra stati come la collaborazione in materia di difesa e sicurezza. Un così massiccio rafforzamento bellico non può prescindere da una fattiva cooperazione e assistenza da parte degli Stati Uniti. L’interesse dei due paesi nell’area Asia-Pacifico è d’altra parte, pur con qualche differenza, sostanzialmente il medesimo: un’area stabile e pacifica; un rapporto con la Cina basato sì sulla crescita dell’interscambio commerciale (quello tra Washington e Pechino attualmente si aggira sui 400 miliardi di dollari l’anno), ma anche sulla necessità che l’ascesa militare cinese non assuma dimensioni incontrollabili. In questo senso, un aspetto cruciale della strategia americana consiste nel consolidare la sua rete di alleanze nella regione. Quella con l’Australia, da sempre considerata centrale, è stata rafforzata con gli accordi di Perth del 2012, che hanno stabilito la riallocazione di un sistema radar americano C-Band da un struttura della Air Force ad Antigua all’Australia occidentale. Inoltre, le due parti stanno portando avanti colloqui per l’installazione di droni a lungo raggio sulle isole Cocos, un territorio australiano nell’Oceano Indiano.

Per concludere: se davvero l’Australia deve decidere da che parte sta il suo futuro parrebbe che, tutto sommato, un orientamento di fondo sia già piuttosto chiaro. Al netto di Libri Bianchi e slogan elettorali, basta forse dare un’occhiata attenta alla bandiera australiana per capire come le radici anglosassoni e un certo background culturale e valoriale, nonostante i mutanti e variabili scenari economici, politici, demografici, strategici e militari, possono difficilmente venire estirpati. Siamo ormai pienamente entrati nel “secolo asiatico”: aspettiamoci ancora per molti anni un’Australia vivace, aperta, florida e dinamica; sicuramente pronta a cogliere tutte le occasioni di crescita che derivano dalla relativa prossimità a paesi in notevole sviluppo economico, dalle smisurate ricchezze naturali del proprio sottosuolo e dal suo ruolo sempre più rilevante nell’area Asia-Pacifico. Al tempo stesso, però, aspettiamoci anche un’Australia, dal punto di vista strategico e militare, saldamente ancorata all’Occidente.


Fonti:

http://www.theguardian.com/world/australia-election-2013-interactive
http://www.todayonline.com/world/austrailian-contender-tony-abbott-sparks-foreign-policy-furor
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23898663
“Defining Down Under”, Time Magazine del 19/08/2013, pp.18-23
http://www.todayonline.com/world/abbott-vows-asia-first-policy-if-elected-pm#inside
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23840061
http://www.treccani.it/enciclopedia/australia_res-25c6fc01-a825-11e2-9d1b-00271042e8d9_(Atlante_Geopolitico)/
http://www.notiziegeopolitiche.net/?p=26849
http://asiancentury.dpmc.gov.au/
http://www.sipri.org/research/armaments/transfers/databases/armstransfers
http://breakingdefense.com/2013/07/11/us-marine-force-in-darwin-australia-boosts-to-1000-next-year-boost-to-meu-force-proceeds/
http://www.news.com.au/money/federal-budget/budget-2013-defence-spending-up-as-military-grows/story-fn84fgcm-1226642483169
http://www.geopolitica-rivista.org/21540/il-focus-usa-dallatlantico-allasia-pacifico-la-cina-nel-mirino/

martedì 3 settembre 2013

MR. PRESIDENT, LE SUE LINEE ROSSE, PERCEZIONE DI DEBOLEZZA E RISCHI DI SOTTOVALUTAZIONE

Autore: Angelo Paulon


Mai come in questi giorni Obama sembrava essere all’angolo. Senza il sostegno dello storico alleato britannico, il cui Parlamento ha votato contro l’intervento armato in Siria; incalzato e quasi deriso da Putin che, sprezzante, invitava il già premio Nobel per la pace a pensare alle future vittime della sua eventuale azione militare; sbeffeggiato persino da Assad che rilasciava interviste a grandi giornali occidentali sottolineando come non abbia fornito le prove dell’attacco con armi chimiche del 21 agosto scorso. Proprio in un momento così difficile, Obama sembra aver segnato oggi il primo punto a suo favore: i principali leader repubblicani del Congresso (lo Speaker John Boehner e il leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor) hanno dichiarato il loro sostegno all’intervento militare richiesto dal presidente. Boehner ha sostenuto che è necessario rispondere all’attacco con armi chimiche in Siria e solo gli Stati Uniti hanno la capacità di fermare Assad. Pare quindi che la frenetica attività di lobbying operata dagli uomini più fidati di Obama abbia avuto i primi risultati, mentre fino a ieri il voto del Congresso appariva tutt’altro che scontato. 

Cerchiamo di approfondire la questione. In cosa consiste il vero problema di Obama? Nel non aver ancora attaccato la Siria? Ovviamente no: anzi, allo stato delle cose il non intervento potrebbe anche essere visto come una saggia decisione. Quando si tratta di scegliere tra due mali, si sceglie solitamente quello minore, sul momento o in prospettiva. Ma quando non si è in grado di comprendere quale dei due sia peggiore dell’altro, può avere senso restare fuori dai giochi. In Siria il conflitto è tra un regime spaventoso, che ha massacrato decine di migliaia di persone, e un’opposizione frammentata e poco coesa, ma tutt’altro che esente dall’aver perpetrato stragi e violenze d’ogni genere. Il video circolato per qualche giorno su Youtube, nel quale un combattente dell’opposizione addentava in favore di telecamera il cuore di un lealista dopo averlo ucciso e letteralmente squartato, testimonia l’orrore di cui entrambe le parti sono responsabili. Insomma, nella guerra civile siriana è molto difficile individuare i “buoni”. E in effetti, nessuno tra gli alleati occidentali degli USA è convinto che rovesciare il regime alawita, consegnando di fatto il paese agli islamisti e all’anarchia, sia poi una buona idea. Quindi, il non attacco di per se stesso è parte secondaria degli affanni del presidente USA, considerando anche l’eventualità che il conflitto sfugga dal controllo delle parti e si tramuti in un confronto su scala più ampia.

Parliamo allora della famosa linea rossa dell’utilizzo delle armi chimiche. Circa un anno fa Obama affermò che l’uso di tali armi da parte del regime siriano contro la propria popolazione sarebbe stato inammissibile e avrebbe portato a conseguenze molto dure per Assad. Ebbene, anche se ancora non è stata mostrata al mondo la “pistola fumante”, che il regime abbia fatto ricorso ad agenti chimici parrebbe assodato. Le conseguenze, però, non si sono ancora viste (è anzi possibile che, se anche ci saranno, si tratterà di qualcosa di più simile a un ceffone che a una punizione esemplare. Ceffone dopo il quale Assad sarà probabilmente libero di continuare a usare buona parte della potenza del suo esercito contro i ribelli). Di fronte a questo massacro di donne e bambini, avvenuto utilizzando strumenti così orribili, ci si potrebbe allora chiedere cosa aspettino gli USA, il gendarme del mondo, a fare qualcosa. L’avanzato mondo libero occidentale non può tollerare questo crimine contro l’umanità, che andrebbe punito adeguatamente! Ci si potrebbe e dovrebbe porre, però, anche molte altre domande. Forse scomode. Prima di tutto, che differenza c’è tra le decine di migliaia di morti di questi due anni e quelli del famigerato attacco chimico del 21 agosto? La morte che arriva per mezzo di colpi d’artiglieria, granate, fucili mitragliatori ha un peso minore di quella che giunge a causa del Sarin? Solo queste ultime uccisioni sono adatte a giustificare un intervento armato? E ancora: se bisogna punire l’immoralità di sanguinosi dittatori che schiavizzano e massacrano la propria popolazione, non sarebbe forse il caso di iniziare, a puro titolo di esempio, dalla Corea del Nord? Eppure, non sembra che alcuna voce si levi alta per chiedere a Obama di attaccare Kim Jong-un e liberare il martoriato popolo nordcoreano… che pure, dopo oltre sessant’anni di sofferenze indicibili, ne avrebbe anche moralmente diritto.

E dunque, il cuore del problema del presidente americano è il non aver ancora punito l’uso delle armi chimiche da parte di Assad? Certamente no. E d’altra parte sarebbe irrealistico pensare che gli USA o chi per essi possano inviare truppe, navi o aerei in tutte le parti del pianeta dove vengono perpetrati crimini abietti contro le popolazioni civili. È inutile nascondersi dietro un dito: gli interventi militari dettati da ragioni umanitarie sono normalmente una patina della quale vengono ammantate azioni che hanno in realtà altri obiettivi, più o meno apertamente confessabili. Evidentemente, in questo caso specifico le ragioni geostrategiche statunitensi non sono tali da giustificare un intervento rapido, pieno e risoluto, né a sopportarne le eventuali conseguenze. Allo stato attuale il gioco non vale la candela, con buona pace delle vittime civili passate e future. Possiamo star certi che, se fossero stati in ballo interessi vitali degli USA, staremmo commentando ben altro tipo di decisioni da parte di Obama e una loro ben diversa tempistica; e questo, indipendentemente dalle (non) decisioni  del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Ciò che in questi giorni sta angustiando il presidente, e non potrebbe essere altrimenti, è invece la sua immagine. L’errore che gli si può imputare è di aver indicato una “linea rossa invalicabile” in maniera troppo avventata. Avrebbe dovuto essere certo di poter reagire in maniera chiara, tempestiva e adeguata qualora tale linea fosse stata superata. Cosa che è accaduta, ma Obama non ha ancora reagito. Se anche lo farà tra qualche giorno, sul piano dell’immagine sarà comunque troppo tardi. Su molti media internazionali, in varie cancellerie europee e del mondo arabo, tra i “falchi” del governo israeliano Obama è già stato irrimediabilmente bollato come un pessimo Comandante in capo. Percepito come insicuro, riluttante, poco risoluto. Privo di autorità e, il che forse è peggio, di autorevolezza.

Giudizio condivisibile o prematuro? Domanda di non facile risposta. Certamente Russia, Iran, Siria e Hezbollah sembrano uscire rafforzate da questa situazione, e ognuna ha un buon motivo per esserlo. Putin sa che un’America non in grado, fosse anche per libera scelta, di interferire in maniera decisiva negli affari mediorientali apre un vuoto di potere che la Russia può legittimamente aspirare a colmare, almeno parzialmente (già la gestione della questione egiziana da parte degli Stati Uniti ha sollevato parecchie perplessità). E considerate tutte le altre aree di contrasto con gli USA (il disarmo, i missili e i centri radar dislocati dagli americani in Polonia e Repubblica Ceca, l’accesso al petrolio e alle altre fonti di energia, …) si tratterebbe di un bel punto a favore di Putin in questa riedizione 2.0 della guerra fredda. Assad inizia a pensare che forse, contrariamente a tutte le previsioni di un anno fa, potrebbe anche riuscire a restare in sella a Damasco: e non subire grossi danni dagli USA pur avendo osato superare la famigerata linea rossa potrebbe renderlo ancor più determinato a sedare la ribellione, con ogni mezzo, e porre fine alla guerra civile da vincitore.

La partita più importante, in prospettiva, riguarda però l’Iran, lo spettatore più interessato a soppesare la reazione statunitense alle azioni di Assad. La repubblica islamica potrebbe, a detta di molti, trarre forza e sfrontatezza dalle esitazioni degli USA contro Damasco. C’è chi propone una correlazione diretta tra le oscillazioni dell’Occidente tutto sulla Siria e le probabilità che, quando arriverà il momento critico, l’appello a scontrarsi militarmente con l’Iran per impedire che diventi una potenza nucleare finisca col subire la stessa sorte. Se Obama non affronta Assad, avrà il coraggio di combattere con l’Iran, un paese ben più forte, quando questo sarà troppo vicino alla bomba atomica?

Non è il caso di correre troppo con i parallelismi. È chiaro che Obama, come qualsiasi altro presidente si trovasse al suo posto, non sarebbe certo entusiasta di doversi impegnare in una guerra contro la repubblica degli Ayatollah. Ed è sicuro che, prima di dare luce verde a qualsiasi attacco all’Iran, espleterebbe tutte le possibili soluzioni diplomatiche, nessuna esclusa. Ma altri due fattori sono altrettanto certi: da un lato, un Iran dotato dell’arma nucleare modificherebbe completamente lo scenario in Medio Oriente, destabilizzerebbe i rapporti di forza in tutta la regione, potrebbe scatenare una corsa agli armamenti nucleari da parte di altri attori. L’Occidente, e con esso i paesi sunniti del Golfo guidati dall’Arabia Saudita, hanno un interesse diretto a evitare che ciò accada. Detto in altri termini, non possono permetterlo: regalerebbero all’Iran una posizione di enorme potenza, accrescendo tra l’altro il ruolo e l’influenza dei molti gruppi terroristici a esso legati (in primis Hezbollah). Il secondo fattore ha direttamente a che fare con uno Stato che non sbandiera ai quattro venti linee rosse da non superare e non cerca disperatamente sponde tra i paesi amici: molto più pragmaticamente, quando la sua sicurezza è minacciata oltre il limite del tollerabile, agisce. È fuori discussione che, in caso di coinvolgimento diretto di Israele in qualsiasi conflitto, gli USA non potranno che schierarsi a fianco dello stato ebraico. Lo testimonia il segnale lanciato dai test missilistici congiunti israelo-americani di oggi nel Mediterraneo orientale. D’altro canto, i preparativi per l’eventuale confronto con la repubblica islamica non si sono mai fermati. A metà agosto il generale americano Martin Dempsey, presidente dello Stato Maggiore congiunto delle Forze Armate americane, ha pubblicamente affermato che le opzioni militari USA contro l’Iran sono migliori rispetto a un anno fa.

In sostanza, al momento Obama è apparso un presidente senza troppa spina dorsale, particolarmente ansioso di garantirsi il supporto preventivo a qualsiasi azione militare da parte della comunità internazionale o, in subordine, almeno del suo parlamento. Ma Russia, Siria o Iran faranno meglio a non esagerare con gli atteggiamenti strafottenti degli ultimi giorni, i quali ricordano più dei bulletti di periferia che degli stati sovrani. Un eventuale eccesso di boria e di arroganza potrebbe compattare sia il fronte interno USA sia l’Occidente al fianco di Obama, e riservare loro inaspettate, amare sorprese.


Fonti:
http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-23950253
http://www.jpost.com/Defense/Israel-announces-successful-joint-missile-test-with-US-in-Med-325152
http://www.haaretz.com/news/diplomacy-and-defense/1.541704